Dopo un silenzio lungo dieci anni, Patrick Wolf torna con un disco che non chiede più permesso al passato. “Crying The Neck”, primo capitolo di una tetralogia ispirata alla ciclicità del tempo e alla ruota dell’anno pagana, nasce come gesto di riconciliazione: con se stesso, con il lutto per la madre, con un’idea di musica che non sia più dettata dall’urgenza ma dalla necessità.
È un album che affonda le radici nella terra dell’East Kent – tra folklore, raccolti e memorie personali – e che racconta una rinascita lenta, artigianale, a partire dal corpo e dagli strumenti, nella solitudine di un giardino affacciato su un cimitero. Un lavoro luminoso e consapevole, scritto, suonato e prodotto quasi interamente in autonomia, che parla di guarigione senza retorica, e di come si possa restare fedeli alla propria voce anche quando tutto intorno chiede di cambiarla.
In occasione delle date del suo tour abbiamo incontrato Patrick Wolf per parlare di elaborazione, paesaggi interiori, miti locali e della forza che può nascere dai vincoli – anche quelli imposti dal dolore.
Patrick-Wolf-2025 (photo credit: Furmaan Ahmed)
L’INTERVISTA
Patrick, ti trovi in tour in questo momento?
Sì, siamo in viaggio tra Amburgo e Lipsia. Questa volta è un tour in bus. L’ultima volta ho viaggiato solo, con la mia valigia, in treno dall’Inghilterra fino a Milano. Ora sono con la band, ci muoviamo tutti insieme: suono più grande, band più grande.
“Crying The Neck” è un disco che nasce da un’esperienza personale molto forte. Si percepisce come una sorta di viaggio di trasformazione. Ce ne parli?
Sì, penso che il termine “trasformazione” sia centrale in questo lavoro. È un album nato da un periodo di grande dolore, da qualcosa che per molto tempo non riuscivo nemmeno a esprimere, né con le parole né con la musica. Poi, dopo alcuni anni, all’improvviso quella materia interiore ha iniziato a prendere forma. Mi sono reso conto, a posteriori, che il cuore dell’album è la decadenza. Una serie di risposte alla perdita, alla fine delle cose, al disfacimento.
Nel disco c’è la morte di mia madre, la fine del mio periodo di dipendenza da alcol e droghe, ma anche uno sguardo disilluso sull’Inghilterra post-Brexit, un Paese che ho visto marcire spiritualmente.
Eppure, nonostante tutto, è un lavoro profondamente speranzoso.
Si chiede: cosa succede dopo? Quali possibilità si aprono dalle rovine? È stato un processo davvero trasformativo: ho preso un lutto profondo e l’ho trasformato in qualcosa che potesse – spero – essere d’aiuto anche per gli altri. In fondo, ci sono dei messaggi nel disco che credo possano parlare a chiunque stia affrontando un passaggio difficile.
Il paesaggio in cui hai scritto l’album, Ramsgate, ha avuto un’influenza sulla scrittura e sulla produzione?
È cambiata radicalmente. Brendan (Brendan Cox co-produttore e ingegnere del suono) sapeva che a Londra mi sentivo sotto pressione, così ha sistemato un microfono straordinario e mi ha lasciato solo a Ramsgate.
Sono passato dal vivere a Londra, in un grattacielo da cui guardavo il grigio delle periferie, al poter nuotare ogni giorno nel Mare del Nord. Mi sono ritrovato a camminare sulle bianche scogliere di Dover: tutto il mio paesaggio, emotivo e geografico, è cambiato nel 2020. Era il tipo di scenario in cui avevo sempre sognato di vivere.E questo spostamento ha aperto una porta che avevo tenuto chiusa per anni. Ho sentito, per la prima volta da molto tempo, di essere tornato a casa. Il silenzio, soprattutto, è stato fondamentale. L’ho cercato a lungo, spesso nei posti sbagliati, in modi autodistruttivi. E poi l’ho trovato nella semplicità della natura. In quel contesto, vita e lavoro hanno riacquistato senso.
Nel disco ritroviamo strumenti e sonorità che appartengono alla tua adolescenza, come l’Atari. Che ruolo hanno avuto, musicalmente, questi ritorni?
Credo che molte persone siano rimaste colpite dal suono del disco perché richiama quello dei miei primi lavori. È come se avessi ritrovato una parte di me stesso che avevo messo da parte. Quando ho realizzato “Lycanthropy” ad esempio, l’approccio era molto “glossy”, ad alta definizione. Ma in tutti quegli anni avevo conservato molti strumenti dai miei esordi: erano in un attico nella casa di campagna dei miei genitori, o in qualche magazzino.
Quando finalmente ho avuto una casa vera, ho costruito uno studio in fondo al giardino. Ho tirato fuori tutto, ho spolverato gli strumenti, li ho messi alle pareti: non come esposizione, ma come strumenti vivi.
Ogni giorno potevo entrare in studio, guardarli e decidere: oggi suono questo, oggi creo un brano su quello. È stato molto bello avere davanti a me tutti quegli oggetti che mi accompagnavano da quando ero ragazzo. Credo sia per questo che il disco suona più “Patrick Wolf” di altri miei album recenti: ha un’identità più personale, più idiosincratica.Volevo davvero immergermi in ciò che le mie mani ricordano e usare quella memoria per affinare la mia arte.
La copertina dell’album è molto evocativa. Qual è il concept?
L’artista è Furmaan Ahmed. Durante il lockdown avevo un profilo social privato dove seguivo fotografi e artisti che mi ispiravano. Furmaan era il mio sogno. È anche scenografo: costruisce mondi. L’album è ambientato ad agosto, mese del raccolto, il compleanno e anche il periodo della morte di mia madre.
I campi inglesi hanno un giallo particolare in quel momento. Il giallo era anche il mio colore fortunato da bambino. Sapevo che sarebbe stato il mio “album giallo”, un tributo a lei.
Nella copertina tengo una falce, simbolo di morte ma anche di rinascita, come nei tarocchi. Il raccolto è fine e inizio insieme: prendi ciò che è cresciuto e lo condividi, proprio come si fa con un disco. Volevo rappresentare la morte senza immagini gotiche tradizionali. È un album gotico, sì, ma più da metà estate, più folklorico.
La prossima settimana suonerai in Italia, a Milano e Bologna. Cosa possiamo aspettarci dai concerti?
Lo show dura due ore. È diviso in tre sezioni. Quest’anno è anche il ventesimo anniversario di “Wind in the Wires”, quindi il concerto inizia con quel mondo. Poi attraversa The Bachelor e arriva fino a “Crying The Neck”. Alla fine diventa quasi “Lycanthropy”, con Together e atmosfere da disco. Inizia nella tempesta notturna, prosegue nei campi alla luce del giorno e termina nel futuro. È una festa vera. Ho con me una fisarmonica, una viola-violino a cinque corde, sintetizzatori, batteria, chitarra classica… e tutti i miei strumenti. Anche cambi di costume. È uno spettacolo grande… su un budget piccolo.
Che musica ascolti in questo periodo? C’è qualche artista nuovo che ti ha colpito?
Ascolto molto, ma ora sto per iniziare l’ottavo album, quindi ho smesso di sentire musica altrui. È sempre così: è il primo segnale che sto per creare qualcosa di mio. Inizio a cercare ispirazione nei libri. Sto leggendo Il mito di Sisifo di Camus e Madness & Civilization di Foucault. Filosofia intensa, per elaborare idee complesse. Quando succede, so che il disco successivo è vicino. Se tutto va secondo i piani, dovrebbe uscire il prossimo autunno.
Conosci la musica italiana? Hai qualche artista preferito?
Non conosco molto la scena contemporanea, ma adoro Goblin — li ho scoperti grazie a Dario Argento, e sto indossando proprio ora una loro maglietta! Poi Donatella Rettore, che mi ha fatto conoscere un tour manager italiano, e ovviamente Mina. Ho anche cantato Se Telefonando nell’ultimo tour.
Ho sempre amato la musica italiana, sin da bambino: il primo brano importante che ho cantato, da coro, era proprio in italiano.
Ti aspetto di vederti allora a Milano in concerto!
Milano è sempre il mio pubblico preferito di tutto il tour europeo
Non lo dico tanto per dire. Lì sento davvero di essere amato e che il mio lavoro venga ascoltato con la giusta passione. Non vedo l’ora di tornare a Milano.
IL DISCO
“Crying The Neck” in uscita il 13 giugno è il settimo album in studio di Patrick Wolf. Il nuovo album vede la partecipazione di Zola Jesus, Serafina Steer, del batterista Seb Rochford e della sorella di Wolf, Jo Apps.
“Crying The Neck”, il suo primo nuovo album dopo tredici anni e il primo di una serie di quattro album previsti, è stato scritto e registrato nella città costiera di Ramsgate, nel Kent, che Wolf chiama ormai casa. Qui ha uno studio tranquillo in giardino, il luogo in cui è riuscito a ritrovare la sua voce. In un periodo di ricostruzione, Crying The Neck è stato interamente scritto, composto, prodotto e arrangiato da Wolf stesso, con l’ingresso di Brendan Cox come co-produttore e ingegnere negli ultimi tre anni per aiutare a completare un album che era in lavorazione da dieci anni.
LA TRACKLIST
1. Reculver
2. Limbo (ft. Zola Jesus)
3. The Last Of England
4.Jupiter
5. On Your Side
6. Oozlum
7. Dies Irae
8. The Curfew Bell
9. Lughnasa (ft. Serafina Steer)
10. Song Of The Scythe
11. Better Or Worse
12. Hymn Of The Haar13. Foreland
IL TOUR
31.05.2025 – Santeria Toscana 31 – Milano
1.06.2025 – Express Festival @Locomotiv Club – Bologna