A sei anni di distanza dall’ultimo lavoro in studio, Niccolò Fabi torna con “Libertà negli occhi”, un disco che non è soltanto una nuova raccolta di canzoni, ma l’esito di un processo di riflessione profonda sulla forma, sul linguaggio e sul tempo.
Più che un punto di arrivo, si presenta come un attraversamento: un viaggio interiore e collettivo, nato tra le montagne del Trentino e sviluppato nel silenzio di una maturità artistica che non cerca proclami, ma spazi autentici di dialogo.
Abbiamo incontrato Niccolò e ci siamo fatti raccontare la genesi del disco e la tensione costante tra urgenza espressiva e trasformazione personale. Con lucidità e leggerezza, affronta anche il rapporto con le nuove generazioni, l’idea di custodia e la necessità di reinventare, senza snaturare, il proprio modo di stare nel mondo.
L’INTERVISTA
Partiamo dal testo di Alba: “Io sto nella pausa che c’è tra capire e cambiare”. E’ un posto comodo?
Non è comodo, no. È uno spazio estremamente dinamico, dove niente resta fermo abbastanza a lungo da potersi definire davvero.
Ci sono momenti in cui penso di aver capito qualcosa di me, delle mie fragilità, dei meccanismi che mi fanno soffrire. Ma poi tradurre questa comprensione in cambiamento è un’altra storia.
È un territorio di mezzo, stimolante ma anche faticoso, perché ogni consapevolezza porta con sé una responsabilità. Quella di decidere se e come cambiare.
E sei sempre stato più attratto dal capire o dal cambiare?
Decisamente più dal capire. Ma penso che i cambiamenti profondi non arrivino mai solo per consapevolezza, quanto per eventi che ti costringono a muoverti. Forse sto aspettando proprio quello: un evento. Con la speranza che non sia il Big One e non troppo traumatico.
Com’è nato “Libertà negli occhi”? L’hai scritto tutto durante la residenza in Trentino?
No, sarebbe stato un miracolo scrivere e realizzare tutto in dieci giorni. Qualcosa esisteva già: avevo quattro-cinque brani abbastanza compiuti, con arrangiamenti che mi soddisfacevano.
Però mi ero portato tipo cuoco anche una serie di “spezie”: spezzoni di testi, giri di chitarra e di pianoforte, idee musicali ancora senza una forma precisa.
Alcune cose si sono proprio trasformate.
La residenza è servita per aprire quei cassetti, mescolare ingredienti, vedere cosa funzionava. Alcune cose sono state trasformate collettivamente, altre sono nate lì.
Tipo Chi mi conosce meglio di te ad esempio è nata in una sera di suoni improvvisati e registrati per caso. Lo chalet era diviso in due piano sopra c’erano gli strumenti e sotto ci eravamo accampati. Ognuno ha iniziato a ciondolare con la propria ispirazione, e a un certo punto c’è stato un allineamento, una jam. Alcuni hanno improvvisato parole, altri solo emozioni. Si era create un atmosfera molto leggera che mancava un po’ a questo disco. Ma poi è successo qualcosa di raro: Roberto Angelini, che da anni non scriveva più testi, ha ascoltato tutto in silenzio e nella notte ha scritto un pezzo potentissimo. Lì abbiamo capito che quella canzone aveva una verità che superava tutto il resto ed è diventata un’altra canzone simbolica secondo me perché un po’ racconta del perché noi continuiamo a rivolgerci alla canzone come un interlocutore privilegiato.
Sono passati sei anni dall’ultimo disco. Non ti era mai successo prima. È una questione di esigenze che cambiano?
In parte sì, ma non la farei troppo poetica. Diciamo che ho fatto uno “spermiogramma” creativo: le idee ci sono ancora, si muovono, ma con un’energia diversa. La fertilità, anche artistica, rallenta. Forse oggi le canzoni le scrivo con un altro ritmo, con una tenerezza diversa.
Hai detto che al centro di questo disco non ci sono tanto le canzoni, quanto qualcosa di più ampio. Guardando anche al futuro, cosa significa per te allargare lo sguardo oltre la forma-canzone?
Quando dico che al centro di questo disco non ci sono le canzoni, non intendo sminuirle. È che per la prima volta mi sono trovato a pensare che quello che davvero volevo condividere non era solo una serie di brani, ma un’esperienza più ampia, quasi un racconto per immagini, parole e suoni. Come quando fai un viaggio molto importante e, tornando, senti che non ti basta dire: “ho ascoltato questa musica”, “sono stato in quel posto”. Vorresti mostrare le fotografie, magari anche leggere ad alta voce le pagine del diario che hai scritto, raccontare come ti sentivi. Questo disco nasce da uno stato d’animo preciso, da un momento della mia vita in cui sentivo il bisogno di non separare le canzoni dal resto: dal pensiero che le ha generate, dalle parole che le accompagnano, dai silenzi, dalle visioni.
Per questo ho pensato anche a una forma diversa per presentarlo, una sorta di guida all’ascolto scritta, che non ha nulla a che fare con una cartella stampa. Non è informativa, è emotiva. Serve a dire: “in che condizione ero quando ho deciso di fare questo viaggio?”. Non è un messaggio al futuro, non voglio fare proclami del tipo “questo è il mio ultimo disco”, ma è una dichiarazione di contesto. Una condivisione intima, non tanto dell’opera, quanto dell’urgenza che l’ha generata.
Mi sono chiesto: quali sono oggi le forme migliori per esprimere qualcosa di autentico? E forse a quasi sessant’anni, con tutto il percorso alle spalle, ho sentito che era giusto cercare anche altre vie, altri linguaggi, senza rinnegare nulla. Certo, ho dedicato quasi quarant’anni alle canzoni, e so che niente sarà mai così vicino a me. Anche se domani mi mettessi a scrivere romanzi o a dipingere, nessun linguaggio potrà mai avere con me lo stesso grado di confidenza e profondità. Ma proprio per questo mi è venuta voglia di allargare lo sguardo, di uscire dalla sola forma-canzone per provare a raccontare la complessità di un’esperienza. Questo disco è, in fondo, anche un regalo che ho voluto farmi, per dire a me stesso che c’è ancora spazio per cambiare forma senza perdere l’anima.
Ti senti, rispetto ai giovani, un custode di valori da mantenere o un nostalgico con il futuro alle spalle?
È una domanda complessa, lo ammetto. La verità è che, quando si superano certi anni, il rapporto con ciò che è giovane si fa delicato. Perché il rischio è sempre quello di cadere in due atteggiamenti speculari ma altrettanto sbagliati. Da un lato, sentirsi custodi di un passato “superiore”, con la convinzione che la musica – ma potremmo dire anche l’arte, la cultura – fosse più autentica “quando la facevamo noi”. Dall’altro, forse in modo ancora più grottesco, c’è chi si sforza di mostrarsi allineato al presente, al passo con i tempi, come se volesse dimostrare di essere ancora giovane più che comprendere davvero ciò che è nuovo.
Io cerco di tenermi distante da entrambe le derive. Mi sento piuttosto uno che continua a cercare. È vero, faccio fatica a riconoscermi in certi modi di fare musica oggi, soprattutto nell’idea che la comodità – lo studio sotto casa, l’autoproduzione a portata di clic – sia un valore. Per me, invece, la scomodità è spesso un motore creativo. Mi piace ancora spostarmi, cambiare ambienti, mettermi in situazioni non protette. È lì che qualcosa si muove, che una canzone può nascere da uno squilibrio, da un’assenza di comfort.
E questo, sì, forse è un valore che difendo. Non perché appartenga al passato, ma perché credo sia una delle poche condizioni che ancora oggi possono generare qualcosa di autentico. Quindi no, non mi sento né un nostalgico né un moralista del “si stava meglio prima”. Ma nemmeno uno che si traveste da giovane per paura di guardarsi allo specchio. Semplicemente, continuo a cercare un modo onesto per restare in dialogo con quello che succede, senza perdere la mia voce.
Ti senti distante dal linguaggio delle nuove generazioni?
Sì, devo dire che mi sento piuttosto distante. Non tanto per nostalgia, ma perché il linguaggio dei ragazzi di oggi – parlo dei ventenni o anche più giovani – è cambiato radicalmente. È un linguaggio più diretto, più aderente al presente, con una grammatica completamente diversa da quella che usavamo noi. Per chi fa il mio mestiere, soprattutto per chi scrive canzoni, può essere complicato trovare un proprio spazio in questa trasformazione.
Dopo Sanremo c’è stato un ritorno di attenzione verso i cantautori. È un segnale di cambiamento?
Non lo credo. Sanremo è un’eccezione, non una regola. È un momento in cui tutto si amplifica e ogni cosa viene letta come epocale: il “benino” diventa un capolavoro, il “malino” un disastro. Ma fuori da lì, il cantautorato non è al centro. Non per mancanza di valore, ma perché – in fondo – quel racconto lì ha già detto tutto quello che doveva dire. Era perfetto per la temperatura culturale degli anni ’70. Oggi ci raccontano altre cose, con altri linguaggi.
Quindi non credi a una semplice evoluzione del cantautorato classico?
No, non è solo questione di evoluzione. Sarebbe ridicolo se oggi un giovane artista scrivesse nello stesso stile di un Guccini degli anni Settanta. Non sarebbe autentico. Se Guccini avesse vent’anni adesso, probabilmente scriverebbe un trapper, o comunque userebbe altri codici per esprimere le stesse sensibilità. Non avrebbe senso che imitasse se stesso nel passato.
Vedi un futuro per un linguaggio più ricco, magari più poetico?
Me lo auguro. Spero che si torni a una scrittura meno fotografica, meno descrittiva nel senso più piatto del termine. Vorrei leggere e ascoltare parole che aprono mondi, che sanno abitare anche i luoghi nascosti. In questo momento vedo invece una forte omologazione, una grammatica più povera, un vocabolario ristretto. È un fenomeno diffuso, con poche eccezioni. Mi manca quella complessità che una volta si trovava anche in un pezzo pop.
I ragazzi oggi mi sembrano più paraculi della nostra generazione e molto consapevoli, molto informati, anche più smaliziati. Ma questa lucidità toglie loro qualcosa in termini di ingenuità, di abbandono. È come se la consapevolezza fosse diventata una forma di autodifesa. E questo rende tutto un po’ meno romantico. Ma non è una colpa: è un riflesso del mondo che li circonda.
LA TRACKLIST
Alba, L’amore capita, Acqua che scorre, Nessuna battaglia, Casa di gemma, Chi mi conosce meglio di te, Custodi del fuoco, Libertà negli occhi e Al cuore gentile.
I FORMATI

L’album sarà disponibile in edizione limitata e numerata in due formati fisici: vinile e CD. Quest’ultimo conterrà un libretto di 56 pagine arricchito da uno scritto inedito del cantautore e da una serie di fotografie che documentano l’atmosfera intima della baita dove il disco ha preso forma. Inoltre, chiunque acquisterà una copia fisica avrà accesso alla versione digitale dell’album tramite QR code, mentre lo streaming sarà disponibile solo dal 13 giugno.
IL LIVE DI PRESENTAZIONE
Il disco uscirà nelle piattaforme streaming venerdì 13 giugno e verrà presentato per la prima volta live al pubblico con un concerto speciale immerso nella natura, nei luoghi in cui l’album ha preso vita. L’appuntamento è in Val di Sole sabato 14 giugno a Vermiglio (TN), Località Palù (ore 15.00 – ingresso gratuito), insieme a Niccolò Fabi e ai compagni di viaggio che ha scelto al suo fianco per la realizzazione del disco: Roberto Angelini, cantautore e suo ventennale compagno di musica; il cantautore Alberto Bianco e il batterista Filippo Cornaglia, con cui condivide il palco e collabora da quasi 10 anni; Emma Nolde, nuova perla del cantautorato italiano; Cesare Augusto Giorgini, cantautore e producer conosciuto grazie all’esperienza presso Officina delle Arti Pierpaolo Pasolini.
I CREDITI
“Libertà negli occhi” è nato tra Roma e il Lago dei Caprioli di Pellizzano (TN). È stato realizzato nello Chalet del Lago dei Caprioli di Pellizzano (TN) da Niccolò Fabi, Emma Nolde, Alberto Bianco, Roberto Angelini, Cesare Augusto Giorgini, Filippo Cornaglia e Riccardo Parravicini.
Niccolò Fabi: voce, harmonium, chitarra acustica, basso, pianoforte
Emma Nolde: pianoforte, chitarra acustica, chitarra elettrica, synth, cori
Alberto Bianco: basso, rhodes, chitarra elettrica, chitarra acustica, cori
Roberto Angelini: chitarra elettrica, acustica, lapsteel, Infinity, sampler, voce, cori
Cesare Augusto Giorgini: sintetizzatori, chitarra elettrica, campionatore, vibrafono, cori
Filippo Cornaglia: batteria, percussioni, vibrafono, elettronica
Giulio Cannavale: cori
Kim Fabi: cori
Enrico Melozzi: arrangiamento orchestrale e direzione d’orchestra sul brano “Acqua che scorre” in cui ha
suonato anche l’Orchestra Notturna Clandestina (Roma)
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Di seguito gli appuntamenti previsti: 16 maggio a Roma (Monk – ore 18:00), 17 maggio a Bologna (Feltrinelli Ravegnana Galleria – ore 18:00), 18 maggio a Firenze (Conventino – ore 18:00), 19 maggio a Milano (Base – ore 18:30), 20 maggio a Torino (Circolo dei lettori – ore 21:00), 21 maggio a Catania (Feltrinelli Libreria via Etnea – ore 18:00), 22 maggio a Palermo (Arci tavola tonda ai cantieri cultuali della Zisa – ore 18:00), 23 maggio a Napoli (Foqus Fondazione Quartieri Spagnoli – ore 18:00), 24 maggio a Bari (Feltrinelli Libreria Via melo – ore 18:00), 25 maggio a Taranto (Spazioporto – ore 19:00), 28 maggio a Venezia (Combo – ore 19:00) e il 31 maggio a Cagliari (Exma – ore 17:00).
INFO & BIGLIETTI
04 ottobre – Isernia – Auditorium 10 settembre 1943
09 ottobre – Ravenna – Teatro Alighieri
11 ottobre – Milano – Teatro Arcimboldi
13 ottobre – Bologna – Europauditorium
15 ottobre – Torino – Teatro Colosseo
20 ottobre – Padova – Gran Teatro Geox
25 ottobre – Assisi (PG) – Teatro Lyrick
26 ottobre – Pescara – Teatro Massimo
04 novembre – Napoli – Teatro Augusteo
05 novembre – Bari – Teatro Team
07 novembre – Catania – Teatro Metropolitan
08 novembre – Palermo – Teatro Golden
11 novembre – Udine – Teatro Nuovo Giovanni da Udine
12 novembre – Parma – Teatro Regio
14 novembre – Lugano (CH) – Palazzo dei Congressi
16 novembre – Livorno – Teatro Goldoni
17 novembre – Firenze – Teatro Verdi
19 novembre – Roma – Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone
20 novembre – Roma – Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone