Dark Mode Light Mode
FABRI FIBRA il 20 giugno esce “MENTRE LOS ANGELES BRUCIA” il nuovo album
COLAPESCE: il suo immaginario fotografico tra camere d’albergo stanche e cementine siciliane
NATION OF LANGUAGE in concerto in Italia a novembre

COLAPESCE: il suo immaginario fotografico tra camere d’albergo stanche e cementine siciliane

Lorenzo-Urciullo-D.U.S.-01-2019-Fine-art-Inkjet-print-on-100-cotton-Hanhemule-PhotoRag-ultra-smooth-305gsm-paper-cm-20x20-Courtesy-the-Artist-and-Galleria-Patricia-Armocida

Non solo cantautore, musicista e narratore di mondi sonori: Lorenzo Urciullo – in arte Colapesce – apre al pubblico il suo sguardo visivo con Doppia Uso Singola, prima mostra personale alla Galleria Patricia Armocida di Milano.

Duecento scatti selezionati da un archivio privato decennale compongono un racconto muto ma eloquente, tra stanze d’hotel cariche di memoria, interni familiari e dettagli siciliani che sembrano sussurrare storie dimenticate.

Un viaggio per immagini che, più che documentare, compone. Lo abbiamo incontrato per parlare di fotografia come scrittura, di intimità che si fa esposizione, e del rapporto profondo tra immagine e suono.

Ecco l’intervista pubblicata per Hestetika a Lorenzo. 

Advertisement

Questa mostra nasce da un tuo percorso fotografico che finora era rimasto più intimo. Come si è nata d’idea di questa esposizione?

In realtà è tutto nato un po’ per caso, senza un intento programmatico. Mi ha contattato Patricia Armocida che aveva visto alcune mie foto su Instagram — immagini che postavo senza un disegno preciso, più per passione personale — e mi hanno proposto di costruire un progetto espositivo.

“Doppia Uso Singola” non è una mostra fotografica ma una mostra di fotografie.
Non avevo mai pensato di esporre davvero: la fotografia è una passione che porto avanti da anni, in maniera parallela alla musica. Ho sempre scattato, collezionato, osservato, accumulando centinaia di immagini. Così mi sono ritrovato con un archivio di oltre duemila fotografie, da cui abbiamo fatto una prima selezione. Poi, insieme alla curatrice, c’è stato un ulteriore lavoro di scrematura, fino ad arrivare a circa duecento scatti per costruire la mostra. È stato un processo lungo ma necessario, che ha reso più chiara anche a me stesso la visione che avevo.

Come avete lavorato alla curatela? Hai lasciato libertà alla galleria o sei intervenuto direttamente?

È stata una curatela condivisa. Ho lavorato molto a stretto contatto con Patricia, non solo nella selezione finale, ma anche nella scelta dei formati, delle stampe, della disposizione. Alcune delle fotografie erano scatti che avevo già da tempo, altri li ho realizzati appositamente per questa mostra. C’è una componente emotiva forte, perché molte immagini sono legate alla mia storia personale, alla Sicilia, alle sue contraddizioni, ai suoi silenzi. La divisione in tre macro-sezioni nasce proprio da un’esigenza curatoriale, ma anche dal desiderio di mettere ordine in un materiale vasto e intimo.

Il titolo Doppia Uso Singola sembra giocare con un certo senso di ambiguità. Da dove nasce?

Il titolo è nato quasi per scherzo, ma poi ha acquisito un peso simbolico. Deriva da una riflessione sulle case di mia nonna e di sua sorella la mia prozia, che oggi vivono insieme in quella che era una “doppia uso singola” — un’abitazione pensata per due, che adesso ospita due vedove. È un luogo in cui si respira una certa malinconia, uno spazio condiviso che racconta una solitudine moltiplicata, silenziosa. Mi interessava questa idea di coabitazione forzata, sospesa tra passato e presente, tra pieni e vuoti. La mostra riflette proprio su questo: l’architettura dell’assenza, la poetica delle stanze vissute e abbandonate.

Il tuo è un racconto ha quasi la forma di archeologia alberghiera. Ci racconti?

Sono un detentore d’Iphone da quindici anni, più o meno da quando la musica è diventata il mio lavoro principale. Ho documentato centinaia di camere d’albergo: stanze stanche di essere stanze ma che hanno la necessità di raccontare delle storie. Stanze consumate, venali ma mai giudicanti, piene di oggetti ricorrenti: Chiavi pesanti o schede logore, asciugacapelli esausti come fiato d’anziano, telefoni che non squillano mai, grucce spossate in fila militaresca, cassaforti insicure e vuote, televisori con decoder separato -in equilibrio sul bordo superiore dello schermo, fra grovigli di cavi e mestizia. Cordicelle di emergenza dentro vasche con la psoriasi da prodotto chimico, Frigobar con mignon di liquori che pregano di essere bevuti, connessioni internet claudicanti, bicchieri di plastica incellofanati -perché “l’igiene è una priorità”; cuscini di velluto da starnuto alla sola vista, “servi muti” che dovrebbero essere in pensione da un pezzo. Le Hall sembrano uno Stargate con Tangentopoli, ascensori che pigramente salgono e scendono verso sale colazioni minime. Succo di fu arance spagnole dal sapore medico, bacon ammassato a fianco a uova strapazzate dalla vita. A volte trovi la macchina dei pancake. Estintori. Una mia cara amica una volta mi ha detto che avevo fotografato un cestino così solo che sembrava depresso. 

Molte immagini sembrano raccontare la Sicilia in modo indiretto, attraverso oggetti, spazi, dettagli. È una scelta voluta?

Sì, ho deciso volutamente di escludere la figura umana. Non mi interessa il ritratto come forma di autenticazione del reale. Mi pare spesso una modalità retorica, anche un po’ invadente. Preferisco raccontare l’azione dell’uomo attraverso ciò che lascia: un cavo, un piatto di plastica messo per spaventare i gatti, una sedia spostata. Sono tracce, segni, disfunzioni quotidiane. Mi attraggono i paradossi dell’abitare, gli oggetti spaiati, le scale che non portano da nessuna parte, i portoni murati. C’è una Sicilia che resiste in questi dettagli, una bellezza sghemba, che si manifesta nella decomposizione più che nella composizione.

C’è un’immagine che senti più rappresentativa del tuo sguardo?

Forse una scattata a Pantalica, la necropoli rupestre vicino Siracusa. Un luogo incredibile, Patrimonio Unesco, un canyon dove scorre il fiume Anapo. Lì ho scritto anche un breve testo poetico che accompagna la mostra, quasi una colonna sonora visiva. Sono molto legato a quell’immagine, perché rappresenta bene la fusione tra natura e memoria, il tempo che sedimenta. È una fotografia, ma potrebbe essere anche una musica lenta, stratificata.

Il tuo lavoro visivo sembra dialogare naturalmente con quello musicale. Quanto sono connesse queste due pratiche?

In realtà sono sempre state due facce della stessa medaglia. Anche nella musica, per me, la componente visiva è fondamentale. Ogni canzone ha il suo paesaggio, il suo colore, la sua luce. Quando scatto, non penso mai solo all’inquadratura, ma anche al suono che quell’immagine potrebbe avere. È una questione di ritmo, di composizione. Ultimamente ascolto tantissima musica strumentale e ambient, quasi niente con voce. Forse perché la parola a volte ingombra. Anche nel mio lavoro alla colonna sonora per il film “Iddu” — sulla figura di Mattia Messina Denaro — mi sono concentrato esclusivamente sul suono, ed è stata un’esperienza liberatoria, piena.

Negli ultimi anni si nota una crescente osmosi tra arte visiva e musica. Come la vivi da dentro questo scambio?

Penso che sia una conseguenza naturale dell’idea di artista globale. È sempre stato così, se pensi ai Velvet Underground o a Laurie Anderson: musica, immagine, performance, tutto mescolato. Oggi forse è più visibile perché ci sono meno barriere, meno definizioni rigide. L’immagine non è più solo una copertina: è parte del racconto. Nel mio caso, la fotografia è una forma di scrittura parallela.

Hai parlato di scatti che sembrano “composizioni”. È così che concepisci la fotografia?

Esattamente. Non scatto per documentare, ma per comporre. Non ho mai un progetto preciso: fotografo come scrivo appunti. È un gesto istintivo, a volte primitivo. Come se raccogliessi materia grezza, che poi decanto nel tempo. Alcuni scatti li riprendo anni dopo, altri li lascio sedimentare. La fotografia per me è come una canzone senza parole: evoca, suggerisce, non spiega. E credo che in questa mostra si senta questo approccio, fatto di suggestioni più che di tesi.

Progetti futuri? Continuerai a esporre o torni alla musica?

Non faccio grandi piani. Sicuramente continuerò a fotografare, ma senza l’urgenza di mostrare tutto. È un gesto che resta intimo, anche quando diventa pubblico. Detto questo, mi piacerebbe proseguire in questa direzione ibrida: magari una mostra con un disco, o un disco con immagini. Vedremo. L’importante è che ci sia sempre un po’ di disordine, di sorpresa.

LA GALLERY 

Crediti foto Lorenzo Urciullo. Giulia Parlato

Previous Post

FABRI FIBRA il 20 giugno esce “MENTRE LOS ANGELES BRUCIA” il nuovo album

Next Post

NATION OF LANGUAGE in concerto in Italia a novembre

Advertisement