Recensione: VINICIO CAPOSSELA – “Tredici canzoni urgenti” [Traccia per traccia]

Recensione: VINICIO CAPOSSELA – “Tredici canzoni urgenti” [Traccia per traccia]

Il mondo cade a pezzi e sta andando verso una deriva che può sembrare irrecuperabile.

C’è chi se ne frega e volta la testa dall’altra parte, c’è chi non vuole vedere e crea false urgenze per propaganda o per distoglierci dall’attenzione e invece c’è fortunatamente anche chi pensa, ragiona, manifesta e cerca di risvegliare l’attenzione. 

“Tredici canzoni urgenti” il nuovo disco di Vinicio Capossela è tutto questo.
Un disco della necessità, la necessità di fare qualcosa. Una vera urgenza di testimoniare, di affrontare, di ricordare e urlare.

Vinicio ha creato l’ennesima opera d’arte musicale. Colta, raffinata e ricercata sia sotto il profilo musicale e altrettanto profonda e penetrante su fronte lirico.

Le tredici canzoni sono riempite di urgenze: si parla di urgenza etica, urgenza educativa, urgenza esistenziale, urgenza di un nuovo umanesimo egualitario, urgenza di verità oltre le mistificazioni correnti (“In guerra, la verità è la prima vittima”, scriveva Eschilo).

Sotto il profilo musicale “Tredici canzoni urgenti” è un disco polimorfo, che contiene molti strumenti musicali, musicisti e ospiti, e che alterna diverse forme, dalla follia cinquecentesca al reggae and dub anni ‘90. Ballate, waltz, jive e un cha cha cha costituiscono il suo universo musicale. 

Penso che sia importante lasciare raccontare allo stesso Vinicio il senso delle varie canzoni.

Umili parole, come dice lui stesso, che rappresentano un forte e appassionato appello al cuore dell’umanità e alla sua dimensione più alta, affinché ritrovi nella parola Crisi quella Scelta che è sempre sottesa ad ogni grande cambiamento collettivo, e torni a convincersi che la vera essenza dell’esistenza è nelle cose che non hanno prezzo.

Un’ora di musica da fruire non in modo superficiale. Il senso è prezioso. Ecco la spiegazione delle varie canzoni. 

TRACCIA PER TRACCIA 

1- il bene rifugio

Il mondo cade a pezzi, il gas sale alle stelle

L’insicurezza e la paura, nodo scorsoio che accompagna ogni crisi e particolarmente quella legata alla guerra, fanno impennare i prezzi. L’inflazione, la svalutazione, l’incertezza fanno salire i valori dei cosiddetti “beni rifugio”, tutti legati al mondo della finanza, delle materie prime o del lusso.

Lo scrittore francese Ferdinand Céline, in fuga dalla guerra, mentre tutto va a fuoco, dopo avere perso tutto mostra il certificato che lo lega a Lucette, sua moglie, come unico documento ancora valido, come sola lettera di credito che abbia ancora un valore.

Quando il paniere dei beni si restringe dobbiamo scegliere a cosa dare valore. L’amore non è soltanto un rifugio, ma è anche rivoluzione. Trasformare la fragilità in forza al fine di potere godere, come nell’episodio dell’Iliade, di una tenda in cui rifugiarsi, tenuta in piedi dalla forza dell’unione, all’interno della quale la guerra non è penetrata.

2 – All you can eat

Se non c’è principio né speranza allora mangia

Ci si guarda intorno e ci si accorge che intorno a noi spariscono edicole, librerie, circoli, negozi storici, e intanto crescono mall e ristorazioni all you can eat. In questa formula c’è molto del modello di produzione e consumo che sta asfissiando il pianeta. Molta della ingordigia, del consumare per consumare, ci mostra un modello che diviene anche modello di consumo della socialità. Le piazze affollate in mareggiata di spritz sottocosto, lo spreco, il cibo industriale, i muri di sacchi di spazzatura, sono i segnali visibili di fine filiera del modello alimentare che sta disseccando il pianeta.

Di fronte a un mondo in cui siamo ridotti a irrilevanza illusoriamente partecipata, viene da chiedersi che senso abbia ancora studiare, impegnarsi in quel lavoro sulla costruzione della Speranza enunciato da Ernst Bloch nel suo Il principio speranza, o se non sia il caso di rinunciare e sfondarsi di cibo con tutti gli altri, fino a diventare deambulanti gastrolatri digerenti, per usare un neologismo che recupera la formula dispregiativa gaster (stomaco) che i Greci antichi usavano in contrapposizione ad antropos (il guardante in alto, l’uomo).

Gastrolatri di cibo spazzatura o da “Masterchef” che sia, ora che il cibo pare essere diventato l’unico mezzo ed oggetto di socialità.

3 – La parte del torto

Finché saremo tanti, finché saremo tutti parte del torto

Negli anni Trenta del secolo scorso, Brecht poteva affermare con sicurezza che i posti buoni erano quelli dei ricchi che detengono capitale e potere, e che la parte del torto era quella di chi doveva lottare per la giustizia e la libertà per sovvertire il sistema borghese; oggi, quando la presidente di FdI, erede di quella estrema destra contro la quale si era levata la lotta di Brecht, pronuncia quelle stesse parole per affermare con orgoglio che il suo partito sarà l’unico a non entrare nel cosiddetto Governo dei migliori di Mario Draghi, si va realizzando un cortocircuito valoriale, in cui non esiste più destra o sinistra.

Per molti anni, essere dalla parte del torto è stata la bandiera identitaria di una certa idea di sinistra, ma quella sinistra, cedendo il ruolo di difesa del mondo del lavoro, dei senza diritti e degli ultimi che le sarebbe stato proprio, ha lasciato libero il campo a forze che assieme all’elettorato popolare si sono prese anche la parte del torto. Forze che fomentando la paura dell’altro, hanno portato a una deriva in cui il torto è torto contro il senso di umanità. Legittimare il basso istinto, la legge del più forte, il razzismo e ogni forma di discriminazione nel nome della maggioranza e della nazione è schema antico che porta a società in cui il torto è realizzato non in forma di contrapposizione ideologica, ma in opposizione al concetto di giustizia.   

4 – Staffette in bicicletta

Voi che passate il testimone, perché arrivi più avanti, perché arrivi fino a noi…

Su un muro di cemento lungo la pista ciclabile di Scandiano (Re) nella biciclettata del 25 aprile scorso ho visto dipinti una trentina di nomi di donne. Nomi che oggi non si usano più, soppiantati da altri, più alla moda. Nomi che difficilmente avevano un onomastico, figli piuttosto dell’amore per la letteratura, l’opera e il teatro, nomi che da soli ci parlano di un’altra Italia, l’Italia della resistenza e del dopoguerra. Sul muro era scritto: “Omaggio alle staffette partigiane”.

Il ruolo avuto dalle donne nella resistenza è fondamentale, e non abbastanza riconosciuto. Nessuna resistenza sarebbe risultata possibile senza il sostegno reale operato da queste donne che a rischio della vita davano il loro contributo di partecipazione, non solo con beni materiali, cibo, vestiti, e azioni logistiche (portare volantini, ordini, dispacci), ma soprattutto con l’essere testimoni di umanità in un mondo fattosi disumano. Perché l’azione delle partigiane è stata soprattutto quella di fare guerra alla guerra. Di conservare e tenere vivo ciò per cui la vita vale la pena di essere vissuta: il valore stesso della vita. Quel loro farsi madri, figlie, sorelle e compagne dell’umanità ci sia d’esempio e ci sorregga ora che sentiamo il mostro risorgere sotto i nostri piedi ed è necessario passare il testimone.

5 – Sul divano occidentale

Il tuo sedere, il mio sedere sul divano, quanto ti amo

Goethe scrisse Il divano orientale occidentale in omaggio alla grande poesia persiana. 

Il diwan era una raccolta di canti che, eseguiti alla corte del sultano, potevano ispirare il buon governo.

Il divano, in Occidente, è la sede preposta a ricevere le forme di comunicazione che poi ci ispirano azioni, pensieri e comportamenti.

Nella illusione di essere parte della Storia in diretta che la “società dello spettacolo”, per riesumare il libro di Guy Debord, ci offre, la grande maggioranza delle persone vive forme di partecipazione e coinvolgimento emotivo confezionate dal sistema dell’informazione. Normalmente è una comunicazione tesa ad alimentare la paura e lo scontro. Sia come sia, l’opinione pubblica è sempre tenuta sotto pressione dalla minaccia di turno: il terrorismo di matrice islamica, la crisi economica, l’immigrazione, poi la pandemia e ora la guerra.

Fenomeni oggettivamente diversi finiscono per provocare le stesse reazioni, alimentare le stesse morbosità e per lasciare esanimi sul divano dove nel frattempo si è resistito, magari con qualche ordinazione a domicilio su Glovo.

6 – Gloria all’archibugio

Gloria, gloria all’archibugio, luce e fiamma del progresso

L’epoca in cui le vicende dell’Orlando Furioso sono ambientate è quella della cavalleria pesante. Un mondo in cui lo scontro, frequentissimo, avveniva uomo contro uomo, facendosi a pezzi da vicino. Nell’epoca in cui Ariosto scrive avviene una grande rivoluzione: la comparsa dell’arma da fuoco cambia radicalmente il mestiere delle armi. Laddove prima era necessario lo scontro fisico, ora è possibile uccidere e distruggere da una distanza più impersonale.

L’Ariosto, intuendo la potenza devastatrice di questa rivoluzione, fa gittare il maledetto e abominoso ordigno nel profondo dell’inferno da cui è stato tratto.

Dall’archibugio al drone, ai missili nucleari sono passati cinquecento anni e l’uomo ha sempre più perfezionato l’arte e la scienza di distruggere se stesso e il mondo che abita, fino a sviluppare un arsenale che in questo momento consentirebbe di distruggere centinaia di volte l’intero pianeta.

7-Ariosto Governatore

Strozzato al giogo che qui mi circonda non ho da offrire che parole

Le lettere scritte da Lodovico Ariosto nell’esercizio del ruolo di governatore in Garfagnana restituiscono la sola testimonianza dell’etica dell’uomo Ariosto. L’impotenza con la quale scopre di non potere incidere nella realtà, una realtà in cui il potente è sempre intoccabile e l’umile il soggetto di ogni vessazione. Nel rapporto tra immaginazione e amministrazione da parte di uno degli autori più aperti alla dimensione del fantastico sta tutto il tema del rapporto tra scrittura, arte e potere.

L’amaro riconoscimento della sconfitta di chi non ha altro da offrire che parole.

Ma è una sconfitta dell’umano perché “se il senno è tutto sulla luna, vuol dire che sulla terra non è restata altro che follia”.

8 – La crociata dei bambini

E cercano insieme una terra di pace, non come quella che hanno lasciato

L’innocenza dell’infanzia e dell’animale sono tra le vittime più insostenibili dell’orrore della guerra.

Nella sua La crociata dei ragazzi Bertold Brecht riprende l’episodio medievale della crociata dei bambini, ambientandolo nelle nevi della Polonia a inizio Seconda Guerra Mondiale. Bambini guidati da un comandante bambino, che cercano la via per un paese di pace, dove non ci siano macerie, morte e distruzione, senza riuscire a trovarlo. C’è molto dell’antimilitarismo del drammaturgo tedesco, della sua denuncia della guerra come suprema e più disumana affermazione del Capitale, che in questa ballata va a toccare l’essenza stessa dell’innocenza.

Nessuno più invoca la pace, ovunque si cerca la vittoria. Per dirla ancora con Brecht: “la guerra che verrà non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti. Tra i vinti la povera gente faceva la fame. Tra i vincitori faceva la fame la povera gente ugualmente”.

9 – La cattiva educazione

Inseguita controllata minacciata nel tossico vestito dell’amore

Da qualche anno si è dato un nome a un crimine che non è solo omicidio, ma che ha per oggetto un genere preciso, quello femminile. La retorica e la narrazione che accompagnano questo crimine non sono scevre dalle tossicità della cultura che quel crimine ha generato. Una cultura che solo recentemente si inizia ad analizzare nei suoi risvolti più quotidiani, intimi e nascosti. Una cultura che ha segnato tutti e in grado anche di occultare i propri sintomi sotto una coltre di consuetudine.

È solo da poco che si scopre quanto manifestazioni sessiste, derubricate come atti di goliardia o addirittura di galanteria solo un po’ volgare, come il cosiddetto catcalling, siano i sintomi di quella cultura dello stupro che è dietro ai crimini derubricati come femminicidio.

C’è un problema millenario di cattiva educazione, che va dalla mancanza di educazione alla gestione delle emozioni, del rifiuto e della separazione, all’esercizio del possesso, alla violenza domestica, al silenzio che l’accompagna, all’incapacità di dare un nome a una condizione e a un malessere. Tutto questo è cattiva educazione: i crimini che offendono l’umanità intera di cui sono piene le cronache sono l’ultimo effetto della cattiva educazione che li ha generati. Cattiva educazione collusa con un frainteso e pericoloso uso e abuso della sessualità, del corpo, della violenza e del possesso coperti dalla nebulosa giustificazione, che è in realtà un’aggravante, della parola Amore.

10 – Minorità

Ma solo consumare senza evoluzione chiusi in una prigione di minorità

Kant definiva l’Illuminismo come condizione di uscita dallo stato di minorità inteso come incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro.

La minorità è l’incapacità di essere padroni della propria volontà, l’incapacità di assumersi le proprie responsabilità e di diventare compiutamente adulti. Una condizione che ogni potere ha sempre coltivato, dagli antichi monarchi per i quali il popolo doveva essere un docile corpo senza testa propria, alla condizione di omologato individualismo in cui versiamo oggi.

Ma c’è un’istituzione che più di ogni altra realizza la condizione di minorità con l’uso della forza: il carcere.

Il detenuto, alla base della cui detenzione dovrebbe esserci un percorso di riabilitazione atto a realizzare un cambiamento della persona, diventa un minore sul quale la patria potestà è esercitata da un sistema di regole in cui nessuno è direttamente responsabile. Questa organizzazione burocratica dell’esercizio dell’autorità si concretizza in una lunga catena che, da una porta a sbarre all’altra, trova il suo ultimo anello nella cosiddetta “domandina”, indispensabile formulario per ogni richiesta nei confronti dell’Autorità.

I documentati abusi nelle carceri, le violenze e le restrizioni dovute alla pandemia, il sovraffollamento e i suicidi, l’alta percentuale di recidiva, sono come urla dal silenzio che vengono dagli istituti penitenziari alla cosiddetta società civile. Nella composizione della popolazione carceraria si riflette in maniera palese tutta la disparità sociale ed economica su cui si regge la società, che fa sentire rivolta a tutti noi la domanda che l’ergastolano Salvatore pone al suo giudice nel bellissimo libro del magistrato Elvio Fassone Fine pena: ora: «Che sarebbe successo a Lei, se solo fosse nato dove sono nato io?».

11 – Cha Cha Chaf della pozzanghera

Rompere il cielo, senza paura

Il bambino cessa di essere bambino, nella sua più istintiva manifestazione di libertà e affermazione gioiosa dell’istinto, quando davanti a una pozzanghera smette di saltarci dentro e, più prudentemente, inizia a girarci intorno senza sporcarsi.

In questa allegoria semplice della pozzanghera c’è molto della perdita della fisicità che accompagna l’infanzia delle ultime generazioni, chiamate a conoscere il mondo più per interposizione tecnologica che per esperienza diretta.

Saltare nella pozzanghera, rompere il riflesso dentro, è il modo più efficace e naturale di accedere al cielo e giocarci insieme. Perché, di nuovo, non è l’Utile il fine del gioco, il fine del gioco è giocare.

L’onomatopeico cha cha chaf non ci fa solo sporcare nella pozzanghera, ma ci fa ballare dentro.

12 – Il tempo dei regali

Il tempo dei regali è andato amici miei, il tempo dei regali tornerà

In questi ultimi due anni di confinamento a singhiozzo a tutti noi è scorsa davanti agli occhi la vita. Per chi ha la mia età, si comincia a vedere il periplo del percorso, e ci si rende conto che le cose più importanti sono state il dono, il viaggio, l’incontro. Le cose che non hanno prezzo e per questo sono regali. Perché, in ultima analisi, è la vita stessa a essere un regalo.

Forse è a questo che pensava il grande scrittore di viaggio Patrick Leigh Fermor quando ha voluto intitolare Tempo di Regali il meraviglioso libro che racconta il suo primo viaggio, svolto a piedi, diciassettenne, da Londra a Istanbul, nel 1933.

Pure attraversando un’Europa già preda dei totalitarismi, il suo sguardo è sempre ricolmo di curiosità, ricchezza e umorismo, mai toccato dall’odio che pure gli va montando intorno. Tutta la strada è percorsa con questa sensazione di gratitudine. Una gratitudine non inquinata dalla nostalgia.

Quella gratitudine che ci fa guardare alla strada percorsa come a una specie di miracolo, come se la bellezza fosse sempre a disposizione di tutti, solo a patto di prestarci attenzione.

Un miracolo rinnovabile, anche in tempi bui, coltivando la certezza che altri regali ancora ci saranno e che se pure il cammino produce continuamente il distacco, la separazione e la crepa, la Grazia è lì pronta a soccorrerci e a guarirci portando tutto a Unità.

13 – Con i tasti che ci abbiamo

E se il gioco è stato bello allora è stato anche buono

Un pianoforte a cui sono stati asportati i tasti rovinati dai miei nipoti giocando, mi ha dato lo spunto per riflettere sul fatto che una melodia si può ottenere anche solo usando i tasti ancora rimasti.

Una melodia semplice, sdentata, ma anche forte, che riafferma il “potere dell’immaginazione”.

E allora, per estensione, di ogni cosa si dovrà fare con quello che si ha, non con quello che si desidererebbe avere. Da quello che c’è in cucina, al pianeta che abbiamo a disposizione, sempre dovremo confrontarci con la finitezza delle cose, e nei limiti abituarci a vedere una possibilità.

SCORE: 8,00 

DA ASCOLTARE SUBITO

il bene rifugio – Sul divano occidentale – La cattiva educazione

DA SKIPPARE SUBITO

Non avrebbe senso skippare qualcosa. Il disco va ascoltato e non superficialmente. 

TRACKLIST

DISCOGRAFIA

1990 – All’una e trentacinque circa
1991 – Modì
1994 – Camera a sud
1996 – Il ballo di San Vito
2000 – Canzoni a manovella
2006 – Ovunque proteggi
2008 – Da solo
2011 – Marinai, profeti e balene
2012 – Rebetiko Gymnastas
2016 – Canzoni della cupa
2019 – Ballate per uomini e bestie
2023 – Tredici canzoni urgenti

I VIDEO 

WEB & SOCIAL 

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