Intervista: LELIO MORRA ho imparato ad avere pazienza

Intervista: LELIO MORRA ho imparato ad avere pazienza

Il porto, un mojito, una ragazza che non arriva, un colpo di sonno e uno di fortuna. C’è tutto questo in “Chissà perché”, l’ultimo singolo di Lelio Morra. In attesa dell’uscita del suo primo album ci siamo seduti sul divano e abbiamo chiacchierato. Del prima, del durante, del poi.

“Chissa perché” è il tuo ultimo singolo. Com’è nata questa canzone? Chi è Federica?

È il racconto di una notte molto intensa e bella. Il giorno prima avevo suonato in un teatro di Napoli con Ermal Meta, ero reduce da diverse notti in bianco passate a Milano e avevo accumulato un po’ di stanchezza. Quella sera avevo suonato a Pozzuoli, erano venuti a sentirmi alcuni amici che non vedevo da un po’ e siccome eravamo presi bene, ci siamo trattenuti in un locale. Abbiamo cantato e suonato ancora: Pino Daniele, Lucio Battisti, i Beatles… La barista ci ha offerto un mojito, a detta sua particolarmente buono. Allora l’abbiamo invitata a raggiungerci al porto alla chiusura del locale, ma non è mai venuta. Per fortuna, aggiungo, perché proprio così è nato il ritornello “Federica non c’è”.

“Ma qualcosa è andato storto, ho buttato giù un paletto”…  E poi cos’è successo?

Sulla strada verso casa, mi ha colto un colpo di sonno. Ripensandoci, ho avuto la sensazione che qualcuno guidasse al posto mio. Mi sono svegliato urlando, con lo sterzo tra le mani, mentre attraversavo una rotonda e atterravo dall’altra parte della strada. Era l’alba, il silenzio si è interrotto per colpa del frastuono della macchina che, appunto, ha buttato giù un paletto. Poi silenzio di nuovo, tipo “atterraggio su una nuvola”, l’alba su Napoli e io, sopravvissuto alla sventura. La canzone è nata proprio così, come una fotografia di quelle dodici ore molto intense.

In questa canzone si parla di un’attesa: aspetti Federica che non arriva. Hai mai aspettato qualcuno o qualcosa che non è mai arrivato?

Nell’ultima fase della mia vita ho imparato a dare molto più valore alla pazienza. Fino a qualche anno fa non sapevo cosa fosse. Sono molto felice di aver imparato ad attendere, dopo un periodo negativo in cui mi sono sentito inghiottito da una specie di tritacarne. E’ stato tutto molto amaro, mi sentivo solo, avevo perso la percezione della mia stessa musica. Col tempo questa esperienza mi ha aiutato a riappropriarmi di me stesso, tornare ad avere fiducia e mettere su una nuova squadra per il mio disco.

Arrivi da Napoli, vivi a Milano, nel mezzo hai vissuto in Francia. Cosa ti ha spinto fin lì?

È stata un’esperienza determinante. Ho seguito una sorta di canovaccio di insegnamenti tramessi da una band che amo follemente, i Beirut. Venivo da un momento di disagio: quelle sonorità e quelle parole mi dicevano cosa fare. Ho scritto canzoni durante il viaggio per esorcizzare il periodo negativo da cui venivo. Ho suonato in strada, senza avere una meta, volevo solo arrivare lentamente a Nantes. Volevo scrivere canzoni da lontano e dimostrare a me e agli altri di saperlo fare.

E poi sei tornato in Italia, a Milano…

Una scelta quasi obbligata, ma non so se resterò qui per tutta la vita. Sono molto orgoglioso di quello che ho fatto a Napoli con la mia band JFK e La Sua Bella Bionda, con cui ho pubblicato l’album “Le conseguenze dell’umore”. Oggi esiste il mercato di una bellissima canzone napoletana, quello in cui mi sono formato, ma sempre sapendo di essere legato ad altro. La scena napoletana non avrebbe potuto darmi più di quello che avevo già strappato con i denti. Poi ci sono anche gli affetti, tra le ragioni che mi hanno portato qui, come l’amicizia con Federica Abbate, un grande talento con cui ho scritto alcune canzoni.

 Canti le tue canzoni ma scrivi anche per altri. C’è una delle due dimensioni che ti è più affine?

In questo momento mi sento certamente più musicista e cantautore che autore, sia nell’attitudine che nell’ambizione, anche se è straordinario avere il privilegio di sentir cantare le proprie canzoni da altri artisti. Dal mio punto vista è tutto legato a ciò che so fare, e io so raccontare quello che sento e vedo in prima persona. Se c’è un destinatario per una canzone, magari provo a “cucirgliela” leggermente addosso, ma in generale non sono in grado di mettere tra le corde vocali di qualcun altro ciò che non mi appartiene davvero.

C’è una canzone, tra tutte quelle che hai scritto, a cui sei particolarmente legato?

“Giganti”. L’ho protetta per tantissimo tempo. Racconta la storia più intensa e meravigliosa che abbia vissuto, è il risultato di una trafila molto lunga, durata due anni. Per questo è mutata nel tempo, sia per ciò che racconta che per le sonorità e l’arrangiamento. È la canzone che ha rappresentato la mia rinascita umana ed artistica. Mi ha dato la possibilità di constatare, con mio privilegio e fortuna, che ha emozionato allo stesso modo anche altre persone: per questo devo tanto a “Giganti” e alla persona che mi ha indotto a scriverla.

 

Come sei diventato cantautore?

In modo molto naturale. Sono cresciuto con mio padre che suonava in casa la domenica. Da ragazzo aveva una band, alla mia nascita ha messo da parte questa ambizione professionale ma non ha mai smesso di cantare. Io lo ascoltavo attento, seduto al tavolo con la testa appoggiata sulle mani. Sono partito così, e poi suonare da piccolo mi faceva compagnia. Ero un po’ più in carne di come sono oggi, e decisamente più chiuso. Mi sforzavo di apparire simpatico, anche se lo ero davvero, ma dentro covavo un po’ di frustrazione. La musica mi dava sostegno. Verso i sedici anni ho conosciuto i veri amici, quelli che sono rimasti per tutta la vita al mio fianco. Con loro ho iniziato a suonare e non mi sono mai fermato. Mi viene in mente “Amaranta” un pezzo scritto con la mia prima band nel 2005. Sono passati quattordici anni da allora. A Gennaio l’ho suonata al Teatro Nuovo di Napoli ed è stato bellissimo realizzare che dopo tutto questo tempo, una canzone vive della stessa emozione di allora. Magari un giorno finirà in un disco, chi lo sa.

Prima hai nominato alcuni cantautori della scena italiana, come Pino Daniele e Lucio Battisti. E della scena attuale c’è qualcuno che ti piace e ti ispira?

Sono molto felice della nuova canzone italiana che si è generata negli ultimi anni.  Coi Canova ci siamo visti crescere reciprocamente, ne ammiro la storia e le canzoni, oltre che l’attitudine. Mi piace molto anche Calcutta e considero Brunori Sas un po’ il capostipite di tutti noi. Mi auguro anche io di diventare parte di questa famiglia, un passo alla volta. Spotify può dare una mano: sia “Giganti” che “Chissà Perché” sono entrate nelle playlist dei nuovi cantautori, è un buon modo per aiutare il pubblico a conoscere le canzoni e affezionarsi a loro.

Cosa ti piace di questo nuovo cantautorato?

Si tratta di canzoni con un piede nel passato, ma al tempo stesso contemporanee. Non amo le estremizzazioni però. Per esempio, non capisco la necessità di Tommaso Paradiso di spingersi verso una musica troppo pop se ha dimostrato di saper scrivere una canzone come “Io non esisto”, bella e intensa come una fucilata al petto. Non è un giudizio il mio, solo una constatazione: Tommaso è intoccabile. Infatti tre anni fa ero a casa a Milano, una domenica pomeriggio di agosto, e pioveva. Ad un certo punto è partita “Io non esisto”, non la conoscevo. Mi ha preso in una maniera talmente forte che non smetterò mai di ringraziarlo per questo.

Parliamo del tuo album, in uscita entro l’anno.

Mi sento un po’ papà di questo disco. È una raccolta di canzoni scritte nel tempo, ma anche all’ultimo momento in studio. Le sento tutte addosso: tornando alla pazienza di cui parlavamo prima, sono state proprio loro ad insegnarmi a pazientare. Questo disco racconta tutto quello che merita di finire in una canzone.

E secondo te cosa lo merita?

Tutto ciò che ti emoziona veramente. Ci sono canzoni che si scrivono perché non si può evitare: vengono fuori da un pensiero, un’idea, uno squillo, una sfumatura che diventa via via più grande. Dall’altro lato ci sono canzoni meno di impeto, che nascono da un ragionamento sulla destinazione o sul motivo per cui vengono scritte.  Ci sono canzoni che nascono in tre minuti, rendendoci subito contenti, altre che hanno una gestione lunghissima, ma di cui si può essere felici ugualmente. “Giganti” è una di queste.

Parliamo del video di “Chissà perché”?

E’ un clip che gioca sul compromesso tra il giorno e la notte, estremizzando con ironia alcune sfumature del testo. Questa ironia però svela anche l’aspetto un po’ amaro della vita.

Nell’era in cui Spotify regna sovrano, hai scelto di fare un 45 giri di “Chissà perché”.

Ne sono felicissimo. E’ un desiderio che mi hanno lasciato esaudire i discografici di Solid Records. È un’idea nata un po’ di tempo fa assieme alla nuova squadra. Una vera meraviglia, se penso all’armadio pieno di 45 giri di mia madre. Certo, adesso è meno diffuso di allora, ma ci auguriamo che il pubblico possa reagire con entusiasmo.

Lelio Morra Chissà Perchè

La cover di “Chissà Perchè”

Ci riproverai con Sanremo?

Non lo so. Non esistono regole nell’arte, e in generale nemmeno nella vita. Credo che sia un’ambizione per chiunque abbia scritto almeno una canzone in italiano. L’Ariston, con la sua orchestra, è un palco su cui è passato chiunque. Prima ero alla fermata dell’autobus e una signora diceva: “Ho sessantacinque anni e le canzoni di Sanremo non mi dicono più niente. Prima c’erano canzoni straordinarie, forse sono io che sto invecchiando?”. Di fatto, oggi Sanremo è uno spaccato di realtà vero solo per metà. Un passo alla volta però, anche al Festival sta arrivando quella nuova canzone italiana di cui parlavamo prima. Di conseguenza, se dovessi avere la canzone giusta, perché non riprovarci?

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