Intervista: FEDERICA ABBATE: il mio è un “Tilt” salvifico

Intervista: FEDERICA ABBATE: il mio è un “Tilt” salvifico

Dopo anni trascorsi dietro le quinte, a firmare alcuni dei brani più riconoscibili del pop italiano, Federica Abbate torna con una voce sempre più nitida e personale.

Tilt, il suo nuovo singolo segna l’inizio di un nuovo capitolo: più autentico, più consapevole, più libero. Un inno alla confusione che salva, al caos che guarisce, alla necessità di “andare in tilt” per ritrovare sé stessi.

Con il suo pop contaminato, profondo e melodico, Federica trasforma la vulnerabilità in forza e l’instabilità in slancio creativo.

L’abbiamo incontrata e ci ha raccontato il senso di questo passaggio, il rapporto con il tempo e con l’industria musicale, il ruolo della scrittura e quello – imprescindibile – della libertà.

L’INTERVISTA 

Partiamo da “Tilt”. Da dove nasce questo titolo? Hai mai giocato al Flipper?

Ero troppo piccola quando c’erano i flipper. Qualche volta ho giocato con mio padre, anche se ero troppo giovane per viverlo davvero. Ma il riferimento al Tilt è più simbolico: è quella sensazione di blocco improvviso, di corto circuito. L’immaginario è quello del Flipper che va in tilt, ma in realtà per me è diventato il simbolo di un momento personale molto forte.

Dopo anni in cui scrivevo canzoni per altri, in una specie di terra di mezzo tra l’autrice e la cantautrice, mi sono trovata davanti a un bivio.

Avevo finito un progetto come autrice e mi sono chiesta: “E adesso? Il salto lo facciamo? Cosa voglio dire davvero come Federica, artista?”

Quindi Tilt è un punto di rottura?

Esattamente. È stato un blackout, uno stop emotivo e creativo, ma anche un’opportunità. Ho capito che dovevo isolarmi per ritrovare il centro.
Mi sono chiusa in studio per venti giorni, da sola. Un’immersione totale. Perché la creatività, se non la prendi nel momento esatto in cui arriva, cambia.

Se la diluisci, la perdi. E in quel tempo sono nate una serie di canzoni, tra cui Tilt, che è stata la prima ad affiorare con chiarezza.
Avevo bisogno di raccontare proprio quel passaggio dal buio alla luce.

Cosa rappresenta quindi questo “Tilt”?

È l’accettazione del cambiamento, anche doloroso. Spesso restiamo intrappolati in una forma, in un’identità che non ci corrisponde più. Io mi sentivo così: troppo artista per essere solo autrice, troppo autrice per sentirmi davvero libera come cantautrice. E allora ho scelto di “tiltare”, di accettare la frattura, di rompermi e rimettermi insieme in modo nuovo.

È un passaggio complesso, che riguarda il lavoro ma anche la vita privata e le relazioni. Ma se non accetti quella crisi, resti immobile.
Per me, Tilt è stato salvifico: mi ha permesso di rimettere a fuoco chi sono, come artista e come essere umano.

Nel visual e nell’immaginario di Tilt ci sono elementi ricorrenti: il colore giallo, i volatili, un semaforo. Che significato hanno?

Tilt racconta il mio dualismo. Vivo tra città e campagna: ho scelto di vivere in una cascina tra Piacenza e il nulla, recuperando animali e abbracciando una vita più lenta. Ma sono anche figlia della città, del caos creativo. E questo doppio mondo è tutto dentro Tilt. Il volatile – in particolare il colombo – è il mio animale guida: è resiliente, si adatta, resta nel suo territorio, vola ma torna sempre. Lo sento vicino. Il colore giallo, invece, è gioia pura, è luce. Sono io adesso: non ancora verde, ma nemmeno rossa. Sono gialla. In movimento, in trasformazione.

È un’immagine bella: “sei gialla”. E quanto ti ha influenzato la vita in campagna nella scrittura di questo nuovo materiale?

Moltissimo. La campagna mi restituisce il tempo e il silenzio. Mi fa respirare. In città sei sempre in corsa, hai mille input, ma anche mille distrazioni. Lì, nella mia cascina, il tempo è legato alle stagioni, agli animali, alla luce naturale. È un luogo che ti costringe a rallentare e ad ascoltarti. E questo è fondamentale per la scrittura.

Hai detto che nei venti giorni di isolamento sono nate più canzoni. Quindi c’è già un corpo di lavoro inedito oltre Tilt?

Sì, ci sono diversi brani pronti. Non hanno ancora una forma definitiva, non so ancora che destino avranno, ma sono nati tutti in quel momento di grande lucidità creativa. Per me era importante coglierli lì, in quel preciso stato d’animo. Come una fotografia: se la scatti tre giorni dopo, è un’altra cosa. La voce cambia, l’intenzione cambia. Bisogna scrivere nel momento in cui si ha qualcosa da dire.

Il prossimo passo è il Primo Maggio: salirai sul palco del Concertone a Roma. Come ti senti?

Non vedo l’ora. È da tanto che aspetto questo momento. Mi esibirò con il pianoforte, in una versione essenziale, cruda. È la mia essenza. Sarò lì senza filtri, felice e autentica.

Tu lavori anche come autrice per altri. Come si compone in quel contesto il “negozio del pane” creativo?

Io sono una ginnasta della creatività. L’alleno sempre. 
Mi definisco una melodista: è il mio ruolo naturale nei team creativi. Quando si lavora in squadra c’è chi fa la base, chi il testo, chi le melodie. È una sinergia. Gli autori, secondo me, sono il cuore pulsante della musica italiana. Hanno una capacità straordinaria di reinventarsi, una longevità creativa incredibile. Lavorano ogni giorno, per altri, con generosità e intelligenza emotiva.
Io ho la fortuna di collaborare con colleghi talentuosissimi.

Che musica ascolti quando non stai scrivendo?

Ascolto davvero di tutto… e mangio di tutto, verrebbe da dire. Ci sono periodi in cui non ascolto nulla, perché sono immersa nella scrittura, e altri in cui ascolto tantissimo. Purtroppo questi ultimi sono più rari, proprio perché fermarsi è difficile.
Ma la creatività, per me, è derivativa: ha bisogno di nutrirsi dall’esterno, di assorbire e rielaborare. È un filtro personale che restituisce qualcosa di nuovo. Ecco perché sento la necessità – e il dovere – di ascoltare di più.
Amo tantissimo il pop, da sempre. Mi affascina la sua capacità di trasformarsi, di contaminarsi: oggi ha dentro la trap, il cantautorato, mille influenze che lo rendono freschissimo.
Ascolto tanto pop americano, si sente, ma resto legata anche alla mia identità musicale italiana: se si presta attenzione, nelle mie canzoni si colgono echi vendittiani rivisitati in chiave 2.0.

Hai mai pensato di portare questa tua capacità espressiva anche in un progetto più letterario, magari un libro?

Ci ho pensato, ma il linguaggio della canzone è molto diverso da quello della narrativa. La scrittura di un romanzo ha una grammatica, un ritmo, una costruzione tutta sua.
Però mai dire mai. È un territorio che mi affascina. Magari un giorno ci arrivo, ma ora sono ancora immersa in questo viaggio musicale, che è tutto da raccontare.

Se dovessi scegliere tre parole chiave per raccontare chi sei oggi, quali useresti?

Direi sfida, perché ogni volta che scrivo una nuova canzone mi chiedo se riuscirò a scrivere anche la prossima. È un confronto costante con me stessa, un esercizio di fiducia e resistenza.
Poi libertà, perché quando creo una melodia ho la sensazione di cambiare il mondo, anche solo un po’. Quella cosa non esisteva un attimo prima, ora sì, e questo genera un senso profondo di libertà: mi fa sentire vicina a chi sono veramente.
E infine sacrificio, perché dietro ogni parola, ogni nota, c’è un lavoro invisibile, un allenamento continuo per non invecchiare creativamente. È difficilissimo trovare ogni volta una nuova forma, una nuova voce, senza ripetermi. Ma in questo continuo rinascere c’è anche qualcosa di profondamente vitale.

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