CESARE CREMONINI: racconta tutta la sua discografia

CESARE CREMONINI: racconta tutta la sua discografia

“Cremonini 2C2C The Best Of” segna una tappa per la carriera di Cesare Cremonini, un punto per tracciare bilanci di questi primi 20anni di carriera. Un disco raccolta che questa settimana ha raggiunto anche la vetta della classifica di vendita degli album in italia (leggi la recensione). Per celebrare i suoi 20 anni di musica ci racconta la sua carriera disco per disco.

Ecco il racconto: 

SQUÈREZ 

è stato scritto quasi interamente nel luogo più protettivo e naturale per me, la mia camera da letto, in un periodo di scoperte e forti slanci emotivi: l’adolescenza. È importante ricordarlo affinché resti evidente il fatto che i brani di questo album nacquero ben lontani dall’idea di essere pubblicati o di farne dei grandi successi. Una differenza non da poco rispetto alle tante parole che vennero scritte sulla nascita dei Lùnapop e sulle loro canzoni. Quasi tutte furono realizzate in prima persona tra i quindici e i diciotto anni come “home recording” su un registratore a quattro tracce che mi regalò mio padre per Natale, nei ritagli di tempo dallo studio.  Erano gli anni dunque del liceo, dei primi amori, della scoperta della vita ma anche della libertà molto condizionata imposta dai genitori e dagli impegni scolastici. In quel contesto, rigido e autoritario, come sia riuscito in pochissimi anni, anzi mesi, a diplomarmi al liceo scientifico, scovare quello che sarebbe divenuto il produttore di una vita, Walter Mameli, convincerlo a credere in noi, realizzare insieme a lui quei famosi dodici provini che vennero inizialmente scartati da tutte le case discografiche, pubblicare un album da un milione e mezzo di copie e tre evergreen come “50 Special”, “Un giorno migliore” e “Qualcosa di grande”, firmare un contratto con una etichetta indipendente e portare le canzoni ai primi posti in classifica per oltre un anno, partire per un lungo tour nei palasport arrivando a suonare in alcuni stadi, è qualcosa che ancora riesce a meravigliarmi e divertirmi. Sta di fatto che Walter si trovò fra le mani questo enorme guaio chiamato “Cesare”, e se lo porta dietro tutt’ora, ma come nelle favole biografiche di ogni storia che si rispetti, da quel momento si gettò anima e corpo sul progetto, riuscendo a riordinarlo, indirizzarlo, completarlo con la sua visione e competenza, senza togliere un briciolo della autenticità che ogni mia creazione portava con sé. Il risultato di quell’incontro così importante fu un album d’esordio ispirato come sonorità alla freschezza e alla semplicità degli anni 60, alla costruzione di canzoni dalla struttura riconoscibile ma melodicamente mai prevedibile, dalla immediatezza dei testi che raccontavano con sincerità e un tocco di poesia la storia umana e i sogni di un ragazzino bolognese come tanti, ma certamente il più determinato e sognatore, con una passione infinita per la musica. 

BAGÙS 

fu un disco difficile ma molto importante perché Walter, a cominciare da quello che nella pratica era solo il mio secondo album, cominciava già a chiedermi di alzare la posta in gioco. A mio parere è l’opera più folle e coraggiosa tra quelle che ho realizzato, perché spiega a che velocità mi stessi muovendo dal punto di vista creativo, quanta voglia avessi di crescere, raccontare e imparare, senza il minimo condizionamento verso i grandi successi appena raggiunti con Lùnapop. Iniziare una carriera solista con brani come “PadreMadre”, “Vieni a Vedere Perché”, “Gli Uomini e le Donne Sono Uguali”, “Latin Lover”, “La Cameriera dei giorni più belli”, significava indubbiamente guardare avanti in modo entusiasta e spregiudicato. Forse anche presuntuoso, ma a vent’anni tutto mi si poteva chiedere tranne che il giudizio. L’unico anello di congiunzione con il progetto appena concluso era il luogo in cui volevamo registrarlo. 

Decidemmo di lavorare nella stessa (piccola ma allegra) location in cui era stato partorito “Squèrez”, il Tam Tam Studio di Cesena, un po’ per scaramanzia ma soprattutto perché ci piaceva l’idea di lavorare molto tranquilli e come sempre lontano dai riflettori, perché la curiosità e le aspettative su ciò che stavamo facendo in quel periodo erano molto forti. Tenersi a distanza dai meccanismi e dalle pressioni della discografia è rimasta una delle caratteristiche più evidenti del nostro progetto fino ai giorni nostri. “Bagùs” sarebbe nato dunque nello stesso contesto ma con molta più ambizione e voglia di sperimentare, sotto ogni punto di vista. Mettemmo in piedi una band con dei giovani musicisti romagnoli, tra cui spiccava Andrea Morelli con cui avevo già collaborato in “Squèrez” e che ancora oggi è direttore della mia band sul palco. Anche questa scelta fu una risposta istintiva al fatto che il progetto era divenuto solista senza che io lo volessi, e in modo del tutto inatteso, quindi cominciare a lavorare in gruppo per me fu una vera liberazione dopo mesi e mesi di incontri con avvocati e professionisti che con la musica c’entravano molto poco. Nacquero alcune canzoni (tra cui “La Valle dei Re”, pubblicata nella sua versione originale solo ora) che riguardavano le vicende trascorse con i ragazzi del gruppo, ma per il resto i temi delle canzoni, vicende amorose a parte, si allargarono verso direzioni più fantasiose, come se sentissi la necessità di proteggermi con la fantasia da tutte quelle lettere di avvocati e accuse reciproche ingiustificate. L’iter fu lo stesso del disco precedente: io scrivevo le canzoni e le registravo sullo stesso registratore a quattro tracce di sempre, spesso coinvolgendo in una prima fase molto divertente anche Nicola “Ballo” Balestri, l’unico dei Lùnapop ad avermi seguito nell’avventura solista, dando ai brani una impostazione di massima sull’arrangiamento. Poi insieme a Walter cercavo di trovare con pazienza e una inesauribile voglia di imparare, strade sempre nuove e più interessanti per dare ad ogni pezzo una propria personalità. Per fortuna l’atmosfera di quei giorni era davvero serena e creativa, rilassata al punto che io e Ballo decidemmo di trasferirci a vivere a Cervia, per godere a pieno l’atmosfera intorno a un album la cui pre-produzioni durò più di un anno. 

In questo contesto nacquero canzoni pop-rock come “PadreMadre”, che inizialmente era un lento per piano e voce, ballate con cori alla Beach Boys come “Latin Lover”, che da pop si trasformò in una bossa latin, brani molto sentimentali ma allo stesso tempo affrontati in modo molto coraggioso come “E Invece Sei Tu”, ispirata alle lunghe suite strumentali dei Pink Floyd, e ovviamente ancora l’immediatezza del beat anni 60 italiano in “Piccola Eri”, e l’onnipresente brit-pop orchestrale alla “Live Forever” degli Oasis, sfumato però dai tratti pianistici più classici di “Vieni a Vedere Perché”. Nacquero anche ballad di ampio respiro come “Mille Galassie” (scritta pensando a Mina) e una lunga ghost track realizzata insieme al mio produttore senza il timore di sembrare presuntuosi. 

Credo che “Bagùs” abbia rappresentato per me un salto ad occhi chiusi verso il mio futuro di cantante solista. Quel che ne resta oggi credo sia un album in cui è facile percepire la massima libertà artistica di cui godevo e che Walter difendeva e amplificava. Unica nota negativa di un album che raggiunse le duecentocinquanta mila copie vendute, fu il tour, che fu un mezzo disastro. La fine dei Lùnapop aveva confuso e mischiato le carte. Io non avevo niente in mano ed ero totalmente incapace di bluffare. Anche questo fu un dato molto importante per la mia crescita artistica. Ero pronto a lasciare definitivamente il pubblico dei Lùnapop, chiudere in netto anticipo il sipario della mia giovinezza e cercare la mia strada, a costo di iniziare tutto da capo. 

MAGGESE

 è stato un disco irripetibile per me, a cominciare dal titolo. Dopo un tour di oltre settanta date che cominciò nelle grandi città ma per mancanza di pubblico si concluse nei piccoli paesi di provincia, decisi di fermarmi e di passare un anno viaggiando alla ricerca di me stesso. No, non un viaggio da cui trarre un best seller. Dovevo ricostruire tutto e avevo perso ogni energia. Non fu un bel momento. Da Bologna volai in Sardegna per qualche giorno di riposo con gli amici di sempre, ma lo passai bevendo senza sosta, vedendo molte albe nascere e pochissime mattine. Da lì, passando per la Francia, puntammo in Sud America, per tre settimane di vagabondaggio in Brasile, quindi la svolta: decisi di attraversare tutta l’Argentina, in due mesi di avventure in jeep su strade sterrate perso nella pampa insieme a Giorgio Squarcia, un caro amico regista che come me cercava l’ispirazione per un nuovo percorso (e scrivere il film della vita). Fu una scelta fondamentale. 

Al ritorno dal quel lungo viaggio finii con l’affittarmi un monolocale a New York nel quartiere beat per eccellenza: “Alphabet City” (era questo il primo titolo a cui pensai per il successore di “Bagùs”). La chitarra acustica sempre con me. Giorgio a farmi da Cicerone in giro per il mondo. Bob Dylan come colonna sonora. Questo è stato il mio Maggese. 

E fu proprio la scoperta della poesia di Dylan, a cambiare tutto improvvisamente. Avevo 21 anni. Da sonorità più pop e rock, grazie ai suoi dischi, iniziai a scoprire nuovi suoni, e almeno nella mia testa, cominciai a ricoprire gli ululati di fans accanite che avevano caratterizzato i miei esordi, sfumandoli con un gusto per le rime più maturo, cominciando ad accettare con maggiore elasticità il piacere di scrivere brani acustici, folk, fingerstyle, delicati e più intimi. Accompagnai queste nuove suggestioni con una ricerca approfondita sui film di Federico Fellini, i libri corsari di Pasolini, le avventure tragicomiche dei protagonisti dei libri John Fante, le geniali intuizioni musicali di Giorgio Gaber a teatro. Di conseguenza anche i testi delle mie canzoni si fecero più introspettivi, mentre i chilometri percorsi in giro per il mondo riempivano le mie canzoni di immagini cinematografiche, volti e suoni più avvolgenti che avevano il sapore dei venti che attraversano le grandi distese del sud dell’Argentina. Mi stavo trasformando, che Dio benedica quel momento, in un cantautore. Una parola che però non mi suonava antica, conscio che il mio linguaggio fosse ancora quello di un ragazzo degli anni 90 alle prese con il nuovo millennio appena iniziato. 

A completare l’opera fu Walter che, al mio ritorno, sentendo le nuove canzoni, dopo un attimo di riflessione sui baffi che portavo, decise di registrare il nuovo disco negli Abbey Road Studio prima, poi agli Olympic di Londra. Due tra gli studi più importanti di sempre e con una storia indescrivibile. Fu una sorpresa che ovviamente accettai facendo i salti di gioia. 

Iniziava in quel momento un periodo, quello londinese, destinato a portarci molto lontano. Brani come “Sardegna”, “Maggese”, “Momento Silenzioso”, “Le Tue Parole Fanno Male”, “Marmellata”, vennero accompagnate da arrangiamenti orchestrali di grande qualità, suonati dalla London Telefilmonic Orchestra (la stessa formazione che mi avrebbe accompagnato nel tour teatrale 1+8+24 l’anno seguente). Registrammo parti strumentali suonate da musicisti di altissimo livello e ci concedemmo perfino sfizi inusuali come un arrangiamento di tablas in “Marmellata#25”, suonate dai migliori percussionisti indiani di Londra. Io potei registrare l’intero disco suonando i pianoforti utilizzati da John Lennon e Freddie Mercury nei loro album più famosi, oltre ad avvalermi dell’approccio estremamente professionale dei tecnici e degli ingegneri del suono messi a disposizione da questi studi. Il risultato fu una esperienza fondamentale e molto formativa per me, che rivoluzionò per sempre il mio modo di lavorare in studio. 

Il risultato fu un album che suona ancora oggi caldo e rassicurante, oltre che decisamente originale visto il periodo in cui uscì (molti anni prima che il nuovo cantautorato italiano facesse la sua comparsa sulla scena). Io credo che “Maggese” si possa considerare il padre spirituale di tante cose che si ascoltano oggi in radio, e lo dico senza presunzione. Furono infatti le condizioni avverse in cui si era messa la mia carriera a spingermi verso un’impresa ancora più importante del successo stesso del disco: crearmi un repertorio. “Maggese” è il disco con cui ho iniziato a costruirmi un vero passato. 

1+8+24 è stato il mio primo album dal vivo, registrato durante l’avventura teatrale portata in scena insieme alla Telefilmonic Orchestra di Londra, con cui avevo collaborato per la realizzazione di Maggese. L’idea era molto costosa e complessa dal punto di vista logistico, perché ventiquattro musicisti inglesi da portare con noi città per città, in un tour straordinariamente curato dal punto di vista musicale e scenografico ma con pochi precedenti (la tentazione degli show teatrali insieme all’orchestra avrebbe coinvolto diversi artisti ma solo qualche anno più tardi) era una sfida per niente facile.

La motivazione di un gesto così coraggioso non fu solo artistica. Io e Walter eravamo costantemente alla ricerca della chiave che nessuno riusciva a trovare, anzi della serratura: quella che avrebbe riportato centralità e pubblico ai nostri show. Siccome questo non avveniva nonostante tutti i nostri sforzi discografici, ogni volta cercavamo di alzare l’asticella e portare la massima qualità possibile ai nostri spettacoli. Un po’ per difenderci dai flop, un po’ per rilanciare siccome entrambi siamo sempre stati un’industria di idee e nuovi stimoli, e s ebbene non si rivelasse quasi mai conveniente (rinunciai a molti dei miei compensi nei tour almeno fino al 2012) le esperienze che facevo mi stavano facendo crescere molto sotto ogni punto di vista. Nel caso di 1+8+24 ad esempio, insieme al Duca, lavorando come matti riscrivemmo gli arrangiamenti della maggior parte delle canzoni della scaletta, per adattarle al suono dell’orchestra.

Componemmo anche le parti di violini, viole, violoncelli, contrabbassi, sezione fiati, ancora una volta con le nostre mani, senza l’aiuto di nessuno, con una gigantesca forza di volontà e passione per la musica. Alla fine il tour ebbe inizio dal teatro Smeraldo di Milano e il risultato fu molto soddisfacente. Ci divertivamo e provavamo tutti, anche la mia band, sensazioni uniche durante gli show, perché l’orchestra alle nostre spalle era davvero corposa, numericamente fuori scala per i piccoli teatri dei centri storici, e molto, molto potente dal punto di vista sonoro. Devo dire anche parecchio divertita.

E felice di trovarsi nel più bel Paese del mondo in tour con dei ragazzi alla mano, sempre allegri e divertiti. Credo che questo tour, dal punto di vista artistico, sia stato un evento bellissimo e molto originale per l’Italia, e spero di poterlo ripetere in futuro. 1+8+24 contiene anche un singolo inedito, ovviamente non scritto per lanciare il disco ma preso dalle canzoni già pronte per la pubblicazione del successivo Il Primo Bacio sulla Luna, dove finì in versione acustica. Dev’essere Così, la canzone più Dylaniana della mia carriera, ispirata dal film 8 1/2 di Federico Fellini, fu scritta a New York in piena notte, nell’ultimo periodo vissuto oltreoceano prima della realizzazione di Maggese.

IL PRIMO BACIO SULLA LUNA

 ha giovato fortemente dell’influenza di “Maggese” sia per quanto riguarda l’approccio durante le fasi di registrazione (ci stavano facendo l’orecchio a quella qualità e all’utilizzo di strumentazioni analogiche, che stavamo imparando ad usare) sia per l’attenzione al valore delle canzoni, dei testi e delle parti strumentali che le caratterizzavano. Mantiene delle caratteristiche che porto ancora nei dischi di oggi: saper unire il cantautorato migliore della tradizione italiana con il pop internazionale, giocando a nascondino con tutte le epoche, esplorando l’universo della musica senza un vero perimetro. La differenza tra “Maggese” e “Il Primo Bacio Sulla Luna”, per quanto riguarda la parte tecnica, è che dopo l’esperienza londinese decidemmo di tornare a registrare una buona parte di materiale a Bologna, cercando però di riproporre in casa nostra la stessa qualità raggiunta negli studi in cui avevamo lavorato. La sfida era difficile ma sapevamo di aver imparato tanto e volevamo a tutti i costi provare a realizzare il nostro sogno: costruire il nostro studio di registrazione. Nacque così quello che sarebbe diventato in futuro il nostro quartier generale e la sala parto artistica di ogni nostra produzione musicale: i Mille Galassie Studio. Acquistammo strumenti analogici vintage, amplificatori e chitarre di ogni tipo, posizionammo un grande mixer nella nuova sala regia dello stabile e chiedemmo a Steve Orchard, l’ingegnere del suono che aveva lavorato con noi nel disco precedente, di raggiungerci a Bologna per alcune settimane e iniziare a lavorare insieme alla registrazione e al missaggio del disco. Anche dal punto di vista artistico avvenne una trasformazione molto importante, perché per la prima volta da quando avevo iniziato, decisi di collaborare con un arrangiatore, anche se questa parola ancora oggi gli va stretta. Alessandro “il Duca” Magnanini, un musicista poliedrico e fuori dal “giro” dei musicisti mercenari che si dividono tra un progetto italiano e l’altro, era ed è un producer da studio geniale e molto completo, curioso e intelligente. Adatto alle mie esigenze e alla mia apertura mentale. Folle appassionato dei Beatles, i suoi amori spaziavano dai grandi compositori di orchestra come Ennio Morricone ed Henry Mancini fino all’elettronica d’avanguardia. Insieme a lui, inizialmente quasi per gioco, avevo lavorato alla creazione dell’arrangiamento di archi di “Figlio Di Un Re”, la prima canzone a cui lavorammo insieme, ma ben presto, in particolare nei dischi successivi, la nostra collaborazione si espanse sempre di più abbracciando ogni fase di realizzazione di moltissime canzoni, tra cui “Mondo”, la canzone che segnò la fine della mia avventura musicale con la casa discografica Warner Music. Ho un ricordo molto speciale di questa canzone che ebbe un grande successo. Provai grazie a lei il piacere di realizzare un sogno che tenevo nel cassetto fin da bambino: collaborare artisticamente con Lorenzo “Jova” Cherubini, aprendo così nel migliore dei modi una nuova stupenda fase della mia carriera. 

LA TEORIA DEI COLORI 

è stato il primo album di una trilogia da me fortemente voluta e sulla quale mi sono impegnato con lo stesso entusiasmo di sempre ma con una ritrovata serenità dopo anni di rapporti molto difficili con la casa discografica che aveva il compito di distribuire la mia musica. Con un nuovo contratto discografico con la Universal in mano e un nuovo team di lavoro a Bologna, ero finalmente operativo. Così mi misi in testa di ripartire alla grande e di realizzare tre album collegati tra loro da un impegno costante, mettendo tutto me stesso in gioco, a qualsiasi costo. Mi sentivo forte e pieno di idee. Ormai i Mille Galassie Studio si erano trasformati attivamente nel centro di gravità di tutta la mia attività artistica e anche se continuavamo a registrare alcune orchestre di archi e fiati negli studi di Londra, una buona parte della nostra pre-produzione e registrazione delle nuove tracce, così come l’intero missaggio dei dischi, veniva affrontato tra le nostre mura di casa in completa autonomia. Era piacevole e mi rendeva molto orgoglioso pensare di produrre musica quasi totalmente “Made in Bologna”, agli orari che preferivo, senza pressioni esterne di nessun tipo. Avevo anche uno “studio b” per la fase di scrittura e provinaggio delle canzoni allo stato embrionale. Lo avevo chiamato “White Studio” perché era completamente rivestito di bianco, e si trovava proprio nella casa che mi ero appena comprato. Nella pratica, ovunque mi voltassi in quel periodo, potevo realizzare canzoni. Questo mi fu di aiuto per comporre quello che divenne un album straordinariamente ricco di idee e molto curato nella forma, ma anche (fortunatamente) pieno di hit destinate al grande pubblico come “Il Comico (Sai Che Risate)”, “Una Come Te” “I Love You”, “L’uomo Che Viaggia Fra Le Stelle” e “La Nuova Stella Di Broadway”, che avevo scritto qualche anno prima e che trovò la sua ideale collocazione nell’album “La Teoria Dei Colori”. Fu importante anche da altri punti di vista. Finalmente, dopo diversi anni di sacrifici anche economici (più volte io e Walter scegliemmo di non guadagnare dai live per mantenere alta la qualità delle nostre produzioni) e risultati non determinanti, tornai ad esibirmi nei palasport di tutta Italia con un tour di grande successo. La mia carriera era tornata al punto di partenza, si era rimessa in gioco con coraggio, e ora iniziavano ad arrivare i primi piccoli frutti di tutto il lavoro svolto. Tutto stava per rimettersi in sesto. Poteva succede qualsiasi cosa.

LOGICO 

è un disco che ha rappresentato un momento di grande passaggio per la mia carriera. Per la prima volta, grazie ai nuovi progressi che la tecnologia offriva e alla autonomia ormai raggiunta nel saperla sfruttare, mi sono confrontato con sonorità più elettroniche e minimaliste, cercando di svuotare le mie canzoni di quel rigoglioso intreccio di arrangiamenti e sovrastrutture che le avevano caratterizzate fino a quel momento. Volevo immergermi a piccoli passi nel pop che traeva ispirazione dalla musica inglese, come sempre, ma contaminandola con il sound notturno dei producer e dei dj che sempre più volentieri si univano ai progetti internazionali. Erano sonorità che “il Duca” e Walter conoscevano ed esploravano da tempo e che quindi avremmo potuto scambiarci con naturalezza, mettendole a disposizione del progetto. Io ero pronto come sempre ad imparare, il Duca stava crescendo molto dal punto di vista artistico e Walter seppe guidarci attraverso questo passaggio delicato con grande coerenza e giudizio. Il loro apporto fu fondamentale per riuscirci, perché mi imponeva di rivolgermi solo al meglio di tutta la nuova musica che stava girando non solo in radio, ma anche nelle nuove piattaforme appena nate con l’avvento di Internet. L’altra novità era che mi ero aperto, devo dire quasi casualmente (ma con ottimi risultati) alla scrittura di alcune canzoni in collaborazione con Davide Petrella, un giovane ragazzo di grande talento che avevo scoperto durante le mie esplorazioni notturne su MySpace, una delle tante piattaforme digitali legate alla musica che in quel periodo erano in grande espansione. Davide divenne in breve tempo il mio nuovo “compagno di giochi” in studio, e oltre a costruire con me un rapporto di forte amicizia, mi fece tornare a scorrere nelle vene il piacere della condivisione, persa dai tempi della fine traumatica con i Lùnapop. Era l’amico ideale con cui passare intere settimane chiuso in studio, giorno e notte, senza soste e orari, alle prese con le mie nuove creazioni. Dopo tanti anni di lavoro solitario e mi sembrava invero. Ero convinto inoltre che il nostro progetto avesse bisogno di continuare ad esplorare, di non fermarsi, di superarsi e raggiungere un pubblico che era ed è in continua trasformazione. Mi accorsi che nel dialogo la mia testa si poneva gli obiettivi più facilmente, riuscendo a smarcarsi da un perfezionismo che è sempre stato il mio più grande pregio ma anche il mio vero limite. Canzoni come “Logico #1”, che si prese tutta la scena grazie al suo impatto in radio, “GreyGoose” e “Io e Anna”, divennero grandi hit molto passate dalle radio e ampliarono enormemente il pubblico attento alle mie imprese live. Le mie intuizioni diedero ragione a chi sosteneva che il progetto fosse in forte espansione. Finalmente ora le cose procedevano a gonfie vele soprattutto dal vivo. Era appena cominciato un periodo che mi avrebbe portato ai gradi eventi negli stadi, superando di gran lunga il successo del mio primo album con i Lùnapop. Oltre ai tanti fan infatti, ora stava creandosi intorno al progetto una credibilità e una curiosità a lungo attesa. Tutte le scelte fatte fino a quel momento in termini di coerenza e rispetto nei confronti della musica, stavano pagando. 

PIÙ CHE LOGICO LIVE

è la mia seconda raccolta di canzoni tratte dai concerti registrati nella parte invernale del 2014, questa volta però non in teatro ma durante una lunga e bellissima tournée nei palasport. Fu un tour vissuto con grande emozione e coinvolgimento da parte del pubblico e di tutte le persone che lavorarono insieme a noi per uno spettacolo molto potente, ricco di sfumature musicali intervallate da pezzi estremamente divertenti da suonare cantare e condividere. La mia band era in grande forma e io, straripante di gioia per il successo di ogni concerto, diedi il massimo sotto tutti i punti di vista. In questo album si può apprezzare il contatto diretto che nei miei live riesco a raggiungere con il pubblico durante le esecuzioni piano e voce, oltre all’energia di brani come “Mondo”, “Greygoose”, “Logico #1”, “Dicono di Me”, “PadreMadre”, divenuti grazie a questo tour dei miei grandi cavalli di battaglia. Provo ancora una grande emozione oggi, ascoltando la versione di Figlio di un Re al pianoforte, con l’accompagnamento di tromba suonata in modo sublime da Marco Tamburini, uno dei più grandi musicisti italiani, purtroppo scomparso qualche tempo dopo aver registrato il concerto di Torino da cui è tratto l’intero live. Questo album mi ha dato la possibilità di completare anche dal punto di vista artistico l’opera cominciata con Logico, alla ricerca di brani semplici ma dal forte impatto pop. Più che Logico Live contiene infatti quattro tracce fondamentali per la mia carriera: “Buon Viaggio (Share the Love)”, “Lost in the Weekend”, “Quasi Quasi” e “46”. Tutte canzoni che avrebbero potuto far parte di un nuovo album.

POSSIBILI SCENARI

non può essere paragonato a nessuno dei suoi predecessori e probabilmente non avrà senso confrontarlo con i miei album futuri. Questo perché la sua genesi è stata una gigantesca scommessa non solo professionale ma anche umana, che ha coinvolto e messo alla prova tutte le persone legate fortemente al nostro progetto. Due anni di pre-produzione molto impegnativa, alla ricerca di sonorità e metodi di registrazione nuovi e innovativi rispetto a quelli adottati precedentemente, mischiando registrazioni acustiche all’utilizzo di suoni analogici provenienti da strumenti all’avanguardia che ci ha spinto alla produzione di decine e decine di versioni alternative e arrangiamenti di ogni tipo per le canzoni. Da un lato una sperimentazione costante e dall’altro la sensazione di poter finalmente mettere a disposizione di un solo album tutte le esperienze accumulate in quasi vent’anni di carriera. Una dedizione e una determinazione tali da portarmi molto vicino al confine che separa un lavoro artistico dalla pura follia. Sei ulteriori mesi di lavoro tra pre-missaggio e missaggio costellati di tentativi falliti, dubbi, ripensamenti, insoddisfazione, frustrazione, prima dell’attesa pubblicazione. Tutto questo senza sapere che il motivo di tanto impegno e severità di giudizio era dovuto principalmente alla necessità mia e di Walter di alzare e non di poco i valori in gioco, quelli dell’album in primis, ma indirettamente anche quelli che contraddistinguono la musica pop mainstream in un momento in cui le definizioni sembravano perdere ogni giorno di importanza e l’omologazione da abbuffata di social sembrava inglobare e divorare tutto. Ricordo con emozione di essere arrivato in quel periodo a vivere quasi unicamente per questo album, cancellando a poco a poco ogni mia abitudine, ogni orario o piacere personale che non fosse legato alla parte creativa, pur di raggiungere il risultato che ci eravamo prefissati. 

Tutto era cominciato da un dialogo, uno dei tanti quotidiani tra me e Walter. Eravamo appena tornati da un piccolo viaggio di vacanza dopo il lungo tour del 2016 ed entrambi avevamo visto Love & Mercy, il film biografico sulla vita di Brian Wilson, compositore e cantante dei Beach Boys, che dopo un attacco di panico (lo stesso che ebbi io il giorno dell’ultimo concerto del tour) decise di lasciare il resto della band in tour e buttarsi anima e corpo alle prese con la creazione di uno degli album più influenti di sempre: “Pet Sounds”. 

Unendo i puntini, rimasi folgorato dall’idea di immergermi totalmente in un progetto, per vedere quale fosse il limite oltre il quale era sconsigliabile andare. E lo scoprii sulla mia pelle. La simbiosi tra me e “Possibili Scenari” fu tale che ancora oggi fatico a separarmici, e soltanto grazie al successivo tour di tre date negli stadi di Milano, Roma e Bologna, con gli oltre venti concerti nei palasport in tutta Italia che seguirono, riuscii a guarire dai postumi di un periodo totalmente alienante e ossessivo che mi aveva messo in ginocchio, portandomi a sfiorare la schizofrenia. Canzoni come “Nessuno Vuole Essere Robin”, nata alla chitarra in dieci minuti, “Poetica”, “Possibili Scenari”, “Kashmir Kashmir”, “Un Uomo Nuovo”, “Al Tuo Matrimonio”, “Silent Hill”, di cui esistono un’infinità di versioni alternative, rappresentano per me, e credo anche per tutte le persone che ci hanno lavorato, qualcosa di più di un tentativo di realizzare un disco. Sono il risultato di una collaborazione fra menti che hanno cercato di ribellarsi a tutte le regole prestabilite dal mercato del momento, molte delle quali autoimposte, mettendo alla prova le proprie capacità e il personale coraggio di superarsi, con l’obiettivo di portare a termine un lavoro che potesse essere unico nel panorama italiano, influente per la scena musicale, e dal costante respiro internazionale.

POSSIBILI SCENARI PER PIANOFORTE E VOCE

L’idea di pubblicare un disco d’avorio è stata di Walter. Possibili Scenari era stato un grande successo e tutti volevamo celebrarlo con una versione deluxe in vista delle ripubblicazioni natalizie. Unico problema, io mal sopporto i repack con i soliti due o tre inediti realizzati in fretta per vendere qualche copia in più o per essere presenti nell’affollato mercato di fine anno. Altra cosa era però ritornare in studio con un progetto ambizioso e complesso, di traduzione e arrangiamento di brani già pubblicati ma ancora da valorizzare. La cosa che più ci affascinava era la possibilità di continuare ad esplorare il loro significato, siccome l’interpretazione per pianoforte e voce riesce sempre a comunicare qualcosa in più rispetto alle versioni da album, così strutturate e appesantite da mesi e mesi di lavoro sugli arrangiamenti. Per lavorare mi sono avvalso del prezioso contributo di Bruno Zucchetti, il pianista e tastierista che mi segue ancora oggi in tour. Con Bruno ho un bellissimo rapporto e, al di là del suo orecchio assoluto che gli invidio moltissimo, si è sempre dimostrato pronto di fronte alle tante sfide che attraversiamo insieme sul palco. Convertire ogni brano in versione pianistica non è stato facile però. Abbiamo condiviso l’esplorazione di ogni forma pianistica che ci desse emozione per oltre due mesi con continuità, cercando di trovare ogni volta un mondo sonoro più libero dalle due gabbie dentro le quali sono compresse tutte le canzoni: il tempo e la tonalità. Reinterpretando a nostro gusto questi due elementi, al fine di riportare in luce il significato più intimo e vero delle canzoni, i brani prendevano nuove forme e sembravano rinascere. Anche l’interpretazione vocale è stata una scommessa non facile da portare a termine, perché cantare protetti dagli arrangiamenti è cosa ben più facile rispetto alla sensazione di nudità e trasparenza che si prova cantando accompagnati da un solo pianoforte in una stanza. Il pubblico, così come la critica, ha apprezzato molto questo sforzo costante, che proviene da lontano in realtà vista l’innumerevole quantità di brani strumentali pubblicati nel corso della carriera, tra cui opere classiche e lunghe suite pianistiche a conclusione di alcuni album, di differenziarci dalle operazioni più commerciali seppure con l’intento di portare nei negozi e su digitale un prodotto già uscito in forma diversa. Per me è stata una ulteriore esperienza musicale profonda, coinvolgente e molto stimolante.

Related Posts