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Intervista – GABRIELE MEDEOT “LIVE AID: IL SUONO DI UN’ERA”

13 luglio 1985: quarant’anni fa il LIVE AID. Due palchi, due continenti, oltre 70 artisti, un solo messaggio: la musica può (ancora) cambiare le cose.

A quarant’anni dal Live Aid, l’evento globale ideato da Bob Geldof e Midge Ure per combattere la fame in Etiopia, resta impressa la forza collettiva di un gesto senza precedenti.

Da Bowie ai Queen, dai Led Zeppelin agli U2, il suono di un’epoca si è trasformato in un simbolo di coscienza planetaria, tra sogno e spettacolo.

A raccontare tutto un libro “Live Aid: Il suono di un’era. Gli anni Ottanta e il sogno di un mondo migliore” (Tsunami Edizioni). Autore è Gabriele Medeot, musicista e narratore musicale, che ripercorre le premesse, i retroscena e l’eredità culturale di quel giorno irripetibile.

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Lo abbiamo intervistato per capire meglio cosa resta, oggi, di quel sogno amplificato in mondovisione.

​L’INTERVISTA

Gabriele, partiamo dall’origine di questo progetto. Com’è nata l’idea di dedicare un libro al Live Aid e, più in generale, agli anni Ottanta? Cosa è rappresentato per te quell’evento?

L’idea affonda le radici in un bisogno profondo di raccontare un decennio che, a mio parere, è stato tra i più straordinari del Novecento. Gli anni Ottanta furono un crogiolo di contraddizioni: da un lato, l’edonismo e il consumismo sfrenato; dall’altro, una genuina speranza nel futuro e nella capacità della musica di unire le persone.
Il Live Aid, in questo senso, è l’emblema perfetto: un evento globale che ha dimostrato come la cultura pop potesse avere un impatto concreto sul mondo reale.

A livello personale, c’è un legame emotivo fortissimo. Nel 1985 avevo quattordici anni, un’età in cui tutto ti colpisce, tutto ti sembra possibile. Ricordo perfettamente la sensazione di stupore nel vedere quelle star riunite per una causa comune. Era un messaggio potentissimo: la musica non era solo intrattenimento, ma un linguaggio universale capace di smuovere le coscienze.
Oggi, a distanza di quarant’anni, sentivo il bisogno di fissare quelle emozioni su carta, ma anche di analizzare quel fenomeno con gli occhi di chi, da adulto, ne comprende meglio la portata storica e sociale.

In un’intervista recente Midge Ure ha sostenuto che oggi un evento come il Live Aid sarebbe impossibile da realizzare, per via della frammentazione dell’ascolto musicale, dell’egocentrismo degli artisti e della mancanza di empatia generale. Condividi questa visione?

Condivido in pieno, e nel libro affronto proprio questo tema. Il Live Aid non è stato semplicemente un concerto: è stato il prodotto di un momento storico unico. Negli anni Ottanta, la musica era un’esperienza totalizzante. Non esistevano streaming o social network; se volevi ascoltare un artista, dovevi comprare il disco o aspettare che passasse in radio. Questo creava un senso di comunità che oggi è difficile ritrovare.

Ma c’è di più. Quell’evento è nato da un’urgenza morale. Bob Geldof, con il suo approccio punk, ha dimostrato che i limiti esistono solo per essere superati. Pensiamo al Concorde: non era solo un aereo veloce, era un simbolo. Se potevamo attraversare l’oceano in tre ore, come potevamo accettare che milioni di persone morissero di fame? Oggi, in un’epoca iperconnessa ma profondamente divisa, manca quella spinta collettiva. Siamo sommersi da contenuti, ma privi di un vero senso di condivisione.

Per scrivere questo libro, hai avuto modo di intervistare alcuni dei protagonisti dell’epoca, tra cui Bob Geldof e Midge Ure. Che impressione ti hanno lasciato questi incontri?

È stata un’esperienza incredibile, quasi da archeologo della musica.
Parlare con loro è stato come viaggiare nel tempo. Midge Ure, per esempio, mi ha raccontato dettagli sorprendenti sulla genesi di Do They Know It’s Christmas?.
Quella canzone è nata in una notte, in uno studio di registrazione semivuoto, con la paura che nessuno avrebbe risposto alla chiamata. E invece, il mattino dopo, lo studio era pieno di star.

Bob Geldof, invece, mi ha colpito per la sua determinazione. Aveva questa mentalità da “just do it”, anni prima che lo slogan diventasse famoso. Ma ciò che emergeva dalle nostre chiacchierate era soprattutto l’umiltà di quegli artisti. Nessuno si è mai lamentato delle condizioni tecniche precarie, nessuno ha chiesto privilegi. Erano lì per una causa più grande di loro.

Parliamo delle performance. Qual è l’esibizione del Live Aid che ancora oggi ti emoziona di più e perché?

È una domanda difficile, perché ogni performance aveva qualcosa di speciale. Gli U2, per esempio, sono stati fondamentali per me. Avevo quattordici anni, sognavo di diventare un musicista, e vederli su quel palco è stato come una scossa elettrica. Bono che si tuffa nella folla durante Bad, quasi perdendo il controllo della performance… era pura energia.

Ma se devo scegliere, cito due momenti. Il primo è Elvis Costello, che ha trasformato la sua esibizione in un manifesto politico, cantando All You Need Is Love con un messaggio chiaro: “Questo non è un palco per l’autopromozione, ma per ricordarci perché siamo qui”. Il secondo è David Bowie. Lui è arrivato dopo i Queen, che avevano appena dato una delle performance più iconiche della storia del rock, eppure non ha avuto bisogno di competere. La sua presenza, la sua eleganza, il modo in cui ha usato il suo tempo per mostrare un documentario sulla carestia… è stato un atto di umiltà e intelligenza artistica rara.

Durante le tue ricerche, qual è l’aneddoto più curioso o inaspettato che hai scoperto?

Ce ne sono tantissimi, ma uno mi ha colpito particolarmente. I Black Sabbath si ritrovarono per le prove il giorno prima del concerto, in una sala vuota. A un certo punto, notano una ragazza seduta in disparte che li osserva. Ozzy e compagni, con fare burbero, chiedono che venga allontanata perché “le prove sono riservate”. Quella ragazza era Madonna, che se ne andò piuttosto irritata.

Questo episodio racchiude tutto lo spirito dell’epoca. Da un lato, l’umiltà di Madonna, che nonostante fosse già una star voleva imparare dai suoi idoli; dall’altro, l’atteggiamento quasi old school dei Black Sabbath, che proteggevano il loro spazio creativo. Oggi, in un’era di selfie e backstage vip, sarebbe impensabile.

Oltre al libro, hai portato in giro uno spettacolo, Back to the 80s. Com’è nato questo progetto e come lo hai strutturato?

Back to the 80s è nato quasi in parallelo al libro, come un modo per raccontare quel decennio non solo attraverso le parole, ma anche con la musica e le immagini. È uno spettacolo di circa un’ora e mezza in cui alterno storytelling a performance dal vivo con una band, proiezioni di video d’epoca e aneddoti.

L’ho testato nelle scuole, davanti a centinaia di ragazzi, e la risposta è stata sorprendente. Ci si aspetterebbe che i giovani vedano gli anni Ottanta come “roba da boomer”, ma invece si emozionano. Quando faccio notare che ascoltano canzoni di quarant’anni fa con la stessa naturalezza con cui noi ascoltavamo i successi del momento, rimangono stupiti. Quelle musiche hanno superato la prova del tempo perché erano innovative, sincere e, in molti casi, visionarie.

Per concludere: qual è l’eredità del Live Aid oggi? Cosa ci ha lasciato quell’evento?

Il Live Aid ci ha dimostrato che l’impossibile può diventare possibile, ma solo se c’è una visione condivisa. Oggi viviamo in un’epoca iperconnessa, ma paradossalmente più frammentata. Manca quella fiducia nel noi, quella capacità di mettere da parte l’ego per un obiettivo più grande.

Eppure, il messaggio del Live Aid resta attuale: la musica può essere un linguaggio universale, un ponte tra culture e generazioni. Il mio augurio è che questo libro, e il lavoro che porto avanti con lo spettacolo, possano essere un piccolo tributo a quello spirito. Perché, come diceva qualcuno, “il futuro non è più quello di una volta”… ma forse, ogni tanto, vale la pena guardare indietro per capire come andare avanti.

L’AUTORE 

Gabriele_Medeot

Gabriele Medeot è musicista, speaker radiofonico e divulgatore culturale con oltre 24mila iscritti al canale Youtube. Diplomato in Pianoforte con il massimo dei voti e la lode presso il Conservatorio “G. Tartini” di Trieste, ha sviluppato un approccio innovativo alla musica, intesa come linguaggio interculturale e sociale. Alla produzione discografica e all’attività live (attualmente è in tour con lo show tra musica e parole Women in Rock), affianca progetti educativi e multimediali, anche in ambito europeo. Nel 2001 ha fondato a Monfalcone (Gorizia) Arte&Musica, centro dedicato alla progettazione e realizzazione di iniziative culturali. Su Rai Radio 1 Friuli Venezia Giulia conduce il programma “La Musica che non c’è”. È autore dei libri “RockHistory: Suona la storia” e “Teoria in pratica”, pubblicati da Tsunami Edizioni, per la quale ricopre anche il ruolo di direttore editoriale della collana di manualistica musicale MEMO.

INSTORE

L’autore presenterà il libro tra parole e musica anche in varie tappe in tutta Italia, intervallando il racconto degli aneddoti che rendono unico questo libro all’esecuzione al piano di alcune cover dei brani del Live Aid, insieme a Laura Panetta alla voce.

Questi gli appuntamenti:

17 luglio alla Libreria ITALYPOST di PADOVA – 18.30

18 luglio alla Libreria Caffè San Marco di TRIESTE – 18.30

29 luglio in Piazza Sestriere a PALMANOVA (Udine) – 18.30

IL LIVE AID 

ps. Per i nostalgici oggi sul canale Youtube del Live Aid dalle tredici verrà riproposto tutto il concerto!

INFO 

LIVE AID: IL SUONO DI UN’ERA
Gli anni Ottanta e il sogno di un mondo migliore
di Gabriele Medeot
(Tsunami Edizioni – 240 pp.)

WEB & SOCIAL 

www.gabrielemedeot.it
www.instagram.com/gabrielemedeot_storyteller/

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