CRISTIANO GODANO “Mi ero perso il cuore” traccia per traccia

CRISTIANO GODANO “Mi ero perso il cuore” traccia per traccia

“MI ERO PERSO IL CUORE” è il debutto come solista di CRISTIANO GODANO, una “collezione di canzoni che raccontano i demoni della mente”, un disco molto attuale, che ha il coraggio della paura e esibisce questa poetica vulnerabilità.

Cristiano ha presentato il suo nuovo progetto solista con una conferenza stampa virtuale. 

Desideravo fare un disco che suonasse diverso dai Marlene. Una intenzione chiara che esprimesse una mia specifica esigenza artistica.  Dimenticatevi il cliché Godano-Marlene e dedicatevi ad ascoltare della buona musica. Io amo la creatura Marlene Kuntz  che rimane sempre il mio progetto numero uno, ma avevo bisogno di comunicare in modo diverso. 

Il disco nasce nella mia testa tre anni fa. Proviene da un periodo diverso a quello che stiamo vivendo adesso anche se certe inquietudini sono direttamente connesse. Il mio era un sentimento già presente, una paura e una angoscia insita. 
Proprio questo periodo è stato uno dei motivi che mi ha spinto di uscire con questo mio progetto solista proprio adesso. 

Volevo dare una forza empatica, di condivisione e consolazione con tutti i miei fan. Per sentirci tutti più vicini e affrontare meglio le preoccupazioni future. 

NUOVO SINGOLO

Nuovo singolo dell’album è Com’è possibile un brano che mette l’umanità sul banco degli imputati, citando Bob Dylan “La risposta è lassù / e soffia nell’aria / Quante strade dovrà / di nuovo percorrere / un uomo?”.

Il video del brano ha la regia di Lorenzo Letizia, girato al Sonus Factory di Roma, si avvale di immagini di sommosse e catastrofi naturali, per delineare “la bestia” che abita l’uomo, chiudendosi con un riferimento alle recenti proteste in nome di George Floyd (“I Can’t Breathe”) che diventa paradigmatico di una convivenza sempre più complicata dell’uomo con il pianeta terra.

IL LIVE 

Il 2 luglio Cristiano Godano si esibirà in un mini live nel cortile della Galleria D’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo e approfondirà il nuovo album e temi di attualità con Nicola Ricciardi, direttore artistico delle OGR di Torino (ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria, verrà trasmesso in streaming sul canale YouTube della GAMeC). Inoltre presenterà il suo libro “Nuotando nell’aria” il 16 luglio al Circolo dei Lettori di Novara.

Cazzo finalmente sta accadendo. Ritornerò a suonare. Finalmente sta accadendo. Sarà una emozione soprattutto a Bergamo che nell’immaginario collettivo rimane una città martire. Non suonerò tutto il disco. Sarà una chiacchierata con Nicola Ricciardi e suonerò alcuni brani del nuovo disco”. 

TRACCIA PER TRACCIA 

Questo album è una collezione di canzoni che racconta (e dove può cerca di affrontare per combatterli) i demoni della mente. La mente mente, si usa dire… Lasciandole troppo spazio di azione questa menzogna, potente come un virus, acquisisce poco per volta un dominio inesorabile sul suo padrone di casa. E il cuore, unica vera arma per uscirne, è destinato a soccombere, sperso in fondo al cumulo di ingannevoli messaggi e falsità.

Cercarlo e ritrovarlo è il vaccino.

Questo insieme di canzoni racconta dunque nelle più svariate forme tale sottomissione arresa o combattiva, e non teme di mostrarsi tanto intenso quanto fragile, tanto poetico quanto vulnerabile.

E’ un disco che ha il coraggio della paura, perché esibisce questa tenera, autentica, poetica vulnerabilità.

Ha una forte impronta acustica, ed è estremamente intimo, con testi mai come ora diretti nella loro urgenza espressiva. Vorrei che si percepisse la presenza di un amore istintivo per un modo intenso e delicato di concepire la canzone, dandole eleganza espressiva e pathos. Il risultato è una collezione di ballate acustiche e di canzoni sospese in un non-tempo in cui passato e futuro sono, nelle mie intenzioni, assenti.

Gianni Maroccolo e Luca Rossi (Ustmamo) lo hanno co-prodotto insieme a me, e lo hanno anche suonato (oltre al bravissimo Simone Filippi, anch’egli Ustmamo): senza di loro non suonerebbe così e non saprebbe darmi le soddisfazioni che provo quando lo riascolto. Li ringrazio dunque enormemente.

La mia vincita

È la canzone che apre il disco ma è l’ultimo pezzo arrivato in composizione, non molto prima di entrare in studio. Musicalmente è la prima di tante ballate che si susseguiranno, intervallate raramente da qualche pezzo più rockeggiante o anomalo. Dunque il disco parte con parole positive, in cui viene smascherato fin da subito quello che parrebbe essere un problema risolto: le prevaricazioni della mente, dei suoi labirinti e dei suoi parossismi, sconfitte dal cuore che, essendo stato ritrovato, viene posto al centro dell’esistenza come principio guida. La mente infatti mente, come si usa dire, e per guarire dai suoi inviluppi, quelli che portano a sottomissioni frustranti o stati simil-depressivi, si deve cercare di liberarsi di lei. Esistono anche tecniche millenarie, poi riprese da approfondimenti o perfezionamenti moderni, che attraverso stati meditativi permettono di allontanarla per lasciare spazio al cuore. Il ritornello della canzone però mette in guardia… Chissà se tutto ciò durerà? Ritrovare il cuore vuol dire porsi al riparo per sempre dagli assalti della mente?

Sei sempre qui con me

È una canzone in cui con non poca difficoltà cerco di rappresentare una presenza assente, una persona che resta ossessivamente nella testa dell’io narrante, che la vede ovunque al solo evocarla, finanche in maniera del tutto indiretta e inconsapevole. E quella presenza si fa talmente potente da diventare figura ben delineata nella sua immaginazione: al solo “vederla”, ne viene influenzato e soggiogato, quasi come per osmosi. Quell’anima infelice e inevitabilmente incorporea che è la presenza assente è sempre con lui, nel bene o nel male. Ogni giorno e ogni notte. E in questa azione influente, la mente dell’io narrante ha terreno fertile per rimettersi in circolo coi suoi labirinti, le sue gabbie, le sue menzogne, i suoi dedali, riprendendo a seppellire il cuore con la sua progressiva prevaricazione. La base ritmica di Gianni Maroccolo e Simone Filippi crea i presupposti per un delizioso groove, e la slide di Luca Rossi sulle aperture mi riconduce a mondi musicali a me enormemente cari.

Ti voglio dire

È una canzone sull’amicizia, è un pezzo che tentai anche coi Marlene Kuntz prima che il progetto del disco solista prendesse consistenza, ma poi decisi di volerlo usare unicamente per me, per conferirgli l’atmosfera che ora lo caratterizza. I ruoli si interscambiano: ora, colui che subisce la mente e i suoi tranelli e cade nei suoi stati di depressione e crisi esistenziali, è il destinatario delle parole di un io narrante che è l’amico pronto e disponibile. La depressione è una bestia molto strana da comprendere da chi non la subisce, e le reazioni che in genere vengono offerte sono ciò che il depresso non ama sentirsi dire (“non hai niente… stai bene, di cosa ti lamenti?”). In questo caso l’amico del cuore ammette di esserci passato a sua volta e sa comprendere la gravità della situazione: proprio per questo si mette a disposizione, con garbo e discrezione, sapendo rispettare i tempi del sofferente, che chiederà aiuto nel momento che riterrà più opportuno, senza forzature. I cori sul ritornello, di Luca Rossi e Simone Filippi, conferiscono calore suppletivo.

Com’è possibile

Insieme al pezzo che chiude il disco è il pezzo più dall’anima country che io abbia mai composto. E’ un modo di strimpellare la chitarra, quando suono in casa, che mi appartiene da tempo, e che stavolta ha preteso di essere portato a compimento nei panni di una canzone vera e propria. Amo questo modo di suonare, pacificato e rasserenante. Eppure il testo è decisamente inquieto, e in modo allusivo indica possibili brutti scenari futuri per il pianeta (tra pessime derive politiche, ribellioni sociali e deturpazioni irreparabili della natura e del clima). Bob Dylan viene citato con una delle sue canzoni più celebri (Blowin’ in the wind, che divenne il simbolo della generazione pacifista in America, con le sue ansie e le sue paure) e la massima celeberrima di Kant (“il cielo stellato sopra di noi, la legge morale dentro di noi”) viene rimodellata in chiave abbruttita e pessimistica, attualizzata e resa specifica, particolareggiata e contingente.

Lamento del depresso

È la canzone che controbilancia “Ti voglio dire” sul tema dell’amicizia ed è il pezzo meno distante dall’anima dei Marlene Kuntz, o perlomeno presumo: il suo incedere è rock, e il finale spinge sull’emotività con urla definitive. Qui l’io narrante torna a essere il depresso, che intercetta in una persona che credeva un amico un pavido incapace di comportarsi come tale, e che anziché riuscire a offrirsi per garantire sostegno e conforto, scappa di fronte alle sue responsabilità presunte. Il lamento si fa straziante anche e soprattutto perché nel modo feroce che ha la mente di sguinzagliare i fantasmi e le ossessioni la sua possessione diventa estrema, e il depresso percepisce in una stretta di mano poco calorosa e sintomatica di una fuga il segno di un tradimento inappellabile e atroce. Quel falso amico verrà dunque estirpato dalla lista dei veri amici. Sempre sul finale adoro il basso di Gianni Maroccolo, capace di sottolineare lo strazio con note lancinanti e perfette.

Ciò che sarò io

La menzogna della mente amplifica ogni disagio e l’io narrante è travolto nel vortice delle sue ossessioni e delle sue turbe, che lo rendono vulnerabile e esposto con sempre meno difese alle potenziali brutture del mondo. Ogni evento esterno si fa minaccioso, e l’abitazione diventa l’unico microcosmo vivibile, da dove poter tenere distante la realtà esterna. La partenza della donna amata per un’altra destinazione lavorativa assume le proporzioni di una tragedia, e lascia intravedere un futuro di solitudine, che ingenera un timore eccessivo, figlio di quelle amplificazioni vorticose. Il dramma diventa enorme e insostenibile, e l’esistenza pare trasformarsi in un incubo. E’ uno dei miei pezzi preferiti, perché il suo bpm è arretratissimo e ogni tocco sugli strumenti diventa essenziale per mantenere vivo il pathos e impedire alla canzone di sedersi su se stessa con la sua inesorabile lentezza. E siccome questo accade, quando un pezzo lento diventa così potente io ne sono particolarmente affascinato. L’assolo di Luca Rossi sul finale è uno dei momenti musicali più intensi che sia mai finito su un disco con mie/nostre musiche: lo adoro e mi emoziona tantissimo ogni volta che lo riascolto.

Ho bisogno di te

Canzone pensata fin da subito per essere un duetto. Volevo mettere in campo la voce della donna già evocata in “Ciò che sarò io”, il pezzo precedente in scaletta, la cui partenza tanto subbuglio ha creato. Ora lei non c’è più, e il protagonista si sente perso, lasciato solo con le sue ardue lotte contro gli assalti della mente, senza qualcuno a cui aggrapparsi. C’è bisogno di un conforto e di qualche rassicurazione, e nel ritornello lei garantisce che a breve tornerà. Ovviamente le due preziose coriste, Valentina Santini e Alice Frigerio, danno voce alla lei in questione, e la miscela dei loro due timbri rende celestiali e quasi oltremondane le parole dette per tranquillizzare l’uomo in preda dei fantasmi. Magnifici gli interventi di Vittorio Cosma al pianoforte, pieni, pastosi, presenti eppure discreti nell’ottenere la dolce morbidezza di supporto alle voci eteree, e l’ascolto in cuffia garantisce una emotività in grado commuovermi per quanto la sento intensa e genuinamente sofferta. Cantai e registrai questo pezzo come provino sulle rive del lago di Monate, nel varesotto, dal mio caro amico Lory Muratti, e così toccante mi sembrò tale traccia da non voler rifare la voce in studio quando poi registrai il disco. Mantenni dunque il bpm di quella registrazione e in studio registrammo solo la parte musicale e le voci delle coriste.

Dietro le parole

L’io narrante medita sull’uso delle parole nei lavori poetici, in grado di veicolare potenti suggestioni e sedurre. Ma dietro le parole ci può stare un uomo vulnerabile, e la sua diretta conoscenza può contribuire a ridimensionare le idealizzazioni di chi ne ha subito il fascino. Il gioco perverso dei demoni scatenati dai vortici della mente enfatizza questa consapevolezza, e egli diventa poco per volta insicuro e cupamente riflessivo. La mia voce interpreta il testo adeguandosi al suo significato, e si fa flebile e quasi sospirata per rendere al meglio i due aggettivi cantati nel ritornello, ovvero “debole” e “fragile”: ne esce un’esile vocalità sempre in procinto di spezzarsi, delicata e soffusa. Il pezzo ospita il flauto e la melodica di Enrico Gabrielli, e tali arrangiamenti, bellissimi e estremamente evocativi, conferiscono una caratterizzazione precisa e suadente ai 4 minuti e mezzo della sua durata.

Padre e figlio

Un padre e un figlio hanno un diverbio acceso, e il padre ci ripensa a distanza di qualche ora provando forte commozione e tristezza. La canzone non si tira indietro, e il suo tono mesto cerca di rendere al meglio il turbamento. C’è un nonsoché di “leonardcoehniano” che mi soddisfa molto, non cercato ma istintivamente trovato. È forse la canzone che mi procura il più forte impatto emotivo e sarà molto, molto intenso suonarla dal vivo. Sicuramente fra le mie preferite del disco. Pennellate di piano e di cori femminili la impreziosiscono qua e là con misurata delicatezza.

Figlio e padre

Un figlio evoca la figura paterna e al ricordo di quello che fu e di quello che non è più, fantasmi si agitano sullo sfondo provocando sentimenti di angoscia e paura. La parola stessa (“paura”) viene nominata e cantata nel ritornello, e sono particolarmente felice di aver avuto il coraggio di nominarla in modo così manifesto: trovo fascinoso il coraggio della paura, senza il timore di esibire sentimenti sconvenienti per il consolidamento della propria immagine pubblica. Assenza di remore e di giri di parole per arrivare dritti al punto: i Marlene Kuntz non si sono mai tirati indietro da questo punto di vista, sempre addentrandosi nei meandri dei turbamenti quando l’ispirazione lo imponeva, esattamente come le grandi opere artistiche hanno fatto nel corso del tempo, dalla letteratura alla pittura, dal cinema alla poesia. Ancora Enrico Gabrielli interviene con raffinato buon gusto inserendo magnifiche note di flauto, per definizione dotato di un suono quasi impalpabile, così come impalpabile e ineluttabile è il tema della canzone.

Panico

Questo pezzo mi vede impostare una sorta di reading frenetico, così come da intenti era fin da subito, da quando le prime note di chitarra hanno cominciato a girare nella mia testa tre o quattro anni fa. Insieme a Lamento del depresso è la canzone più dichiaratamente rock del disco, e la base ritmica di Gianni e Simone crea senza fronzoli il presupposto per una descrizione sonora del panico provato dal protagonista-io narrante. Il testo è molto basato sulle immagini, per quanto non del tutto definite e facilmente identificabili: sono il contorno realistico e scenografico entro il quale la sensazione di sbigottimento e terrore poco per volta lievita, lo scenario che determina il suo scatenarsi irrefrenabile. Enrico Gabrielli suona un sax nervoso, urbano, metallico, non troppo lontano dai fragori di certo free jazz che ho sempre ascoltato con curiosità e godimento. Un timbro perfettamente adeguato all’esplosione finale, dove il protagonista intravede il suo futuro negli abissi di una voragine. In sottofondo il violino, sempre di Gabrielli, cuce la trama di una sorta di nevrosi, perfetta rappresentazione del rapporto straniato tra individuo e ambiente circostante.

Nella natura

È un pezzo che mi piace definire bislacco, perché musicalmente ha alcune peculiarità, prima fra tutte il fatto che il suono della mia chitarra portante è stato ottenuto registrandolo da un iPhone. E poi ci sono un harmonium e clarinetti giocosi, che lo impreziosiscono di suggestioni leggermente stranianti a me assai gradite. Il testo parla del proficuo rapporto che si può instaurare con la natura, che permette di attenuare le turbe della mente allontanandole poco per volta a favore del dialogo “primigenio” che con lei si instaura. Una giornata storta può essere raddrizzata da una passeggiata lenta e calma in un bosco, e, detto en passant, questa è a tutti gli effetti diventata una terapia consigliata per lenire o allontanare gli effetti disturbati di stati depressivi o disagi esistenziali vari. Al netto di queste consapevolezze scientifiche, la canzone racconta di effetti non cercati a priori, ma ottenuti incidentalmente e apprezzati a posteriori.

Ma il cuore batte

Il disco chiude con la seconda ballata dal sapore decisamente country. Sono estremamente felice del sound di questo pezzo, quasi rurale, come se provenisse da una suonata serale fra amici in qualche luogo ameno e suggestivo di campagna o di montagna, col tramonto a lottare per gli ultimi istanti finali di supremazia con la notte sopraggiungente. Mi è quasi possibile immaginare e prefigurare un ambiente sonoro latente, e non mi stupirebbe prima o poi in qualche ascolto notturno con le cuffie percepire la presenza di qualche uccellino fantasma. In questo incanto paesaggistico è bello immaginare la pertinenza delle immagini del testo, che racconta dell’irrefrenabile anelito alla vita nonostante tutto. Il mondo gira e le cose accadono, e fra di esse il battito del cuore, incessante nella sua regolarità fintanto che l’esistenza procede. Nonostante tutto, per l’appunto.

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