C’è stato un tempo, a Milano, in cui la musica viveva nei sotterranei, tra centri sociali e studi di registrazione condivisi, tra grafica e poesia, tra drum machine e testi letti ad alta voce.
I Karma nascono proprio lì, in quell’arcipelago di esperienze che fu la scena alternativa degli anni ’90. A guidarli, David Moretti, poi diventato creative director di Apple in California e poi “Il Conte” Andrea Bacchini alla chitarra, Andrea Viti al basso, futuro Afterhours, Diego Besozzi alla batteria e Alessandro “Pacho” Rossi, uno dei migliori percussionisti italiani.
Erano gli anni dei movimenti studenteschi, delle occupazioni universitarie, dei pomeriggi trascorsi a registrare in presa diretta in studi come la Jungle Sound Station di Milano, dove passavano i Ritmo Tribale, gli Afterhours, i La Crus, gli Scisma, i Casino Royale.
Nel 1994 usciva il loro primo, omonimo album Karma, prodotto da Fabrizio Rioda per la Jungle Sound. Un disco che rielaborava l’energia viscerale del grunge, l’introspezione del rock alternativo e le tensioni elettroniche degli anni ’80 in una formula personale, stratificata e imprevedibile.
La forza del progetto stava anche nella rete di relazioni che lo sosteneva: Manuel Agnelli canta in “Nascondimi”, Andrea Scaglia duetta in “Una stella che cade”, e nelle sessioni notturne si materializzano featuring non accreditati, come Patrick Benifei dei Casino Royale al piano e Alessandro Branca al violoncello in una versione intima e inedita de “Il Cielo”.
A distanza di oltre trent’anni, Karma torna in una ristampa in uscita il 27 giugno 2025. Per la prima volta in versione vinile – doppio LP GOLD 180 grammi con artwork rivisitato e due bonus track – e in CD con copertina e tracklist originali del 1994.
Abbiamo parlato con David Moretti di passato e presente, di industria musicale e memoria collettiva, di cosa vuol dire tornare oggi, nel 2025, con un disco nato in un altro secolo ma che continua a pulsare.
L’INTERVISTA
Nel 1994 usciva il vostro primo disco. Oggi, a trent’anni di distanza, cosa è cambiato nel mondo della musica – e, se possibile, anche in voi?
È cambiato tutto, davvero tutto. E non solo nel mondo della musica, ma nella cultura, nella comunicazione, nei ritmi con cui viviamo e fruiamo le cose. Negli anni ’90 esisteva ancora uno spazio intermedio tra il mainstream e l’underground, una zona grigia dove potevi sperimentare senza essere né una rockstar né un nome da nicchia invisibile. Oggi quella zona è stata completamente assorbita o annientata.
Negli anni ’90 c’era un’energia pionieristica fortissima. L’idea che da una città di provincia potessi parlare al mondo, ispirarti a Bristol o a Seattle senza sentirti ridicolo.
C’era un impulso culturale a contribuire a qualcosa di più grande. Non era solo un atteggiamento musicale, ma un modo di vivere, un’attitudine.
Negli anni successivi è entrata in gioco una nuova consapevolezza, anche un nuovo cinismo. Poi è arrivata MTV, e con essa una nuova idea di industria culturale. Le dinamiche sono cambiate radicalmente.
Manuel Agnelli, qualche settimana fa, alla ristampa di “Ballate per piccole iene”, ha detto: “la musica italiana è diventata una merda”. Ti ritrovi in questa analisi?
Guarda, in parte sì, ma va anche contestualizzata. Manuel è uno che ama provocare, e serve anche questo tipo di sguardo tagliente, serve a scuotere.
Però dire che la musica è diventata una merda è un po’ generalizzare, è una parte della verità, ma non tutta.
Anche noi, negli anni ’90, eravamo consapevoli di un sistema mainstream che tendeva a fagocitare le cose. Solo che allora il sistema era più lento, meno aggressivo. Oggi, la velocità del consumo ha reso tutto più brutale: fai un disco e sei già pronto per San Siro. Se non lo riempi, sei già considerato finito.
Il problema vero, però, è un altro: mancano i luoghi. Luoghi fisici, ma anche culturali, dove qualcosa possa nascere davvero dal basso. In Italia c’è una monocultura musicale che si autoalimenta.
Mancano spazi per l’alternativa, per la complessità.
Negli Stati Uniti, dove vivo da anni, vedo che il mainstream si ossigena ancora dall’underground. Miley Cyrus suona con musicisti che arrivano da scene alternative. C’è uno scambio continuo. In Italia no.
Detto ciò, non penso che ci sia solo spazzatura in giro. Penso che ogni generazione abbia diritto ai suoi linguaggi, e che il nostro ruolo non sia quello di giudicare esteticamente tutto, ma piuttosto osservare i processi.
Chi potrebbero essere oggi i “Karma” del 2025? E se voi nasceste oggi, che musica fareste?
Bella domanda. Stilisticamente ci sono progetti che ci intrigano ancora oggi. Pochi giorni fa i Deftones hanno fatto sold out al Carroponte di Milano: 15.000 persone. Un gruppo con radici metal, che è riuscito a reinventarsi, e che in Italia non ha mai avuto un grande seguito commerciale. Eppure è successo. Questo dimostra che non tutto è perduto, che anche il rock – sebbene dato per morto – ha ancora un pubblico, un desiderio.
Detto ciò, se i Karma nascessero oggi, forse non suonerebbero nemmeno rock. Forse sarebbero un collettivo, forse userebbero mezzi diversi. Quello che ci manca davvero è vedere nascere qualcosa dal basso. Mi ha colpito il progetto Carne Fresca di Manuel Agnelli– lì si intravede un’energia nuova, una possibilità.
Ma ti dirò di più: spero che oggi non ci sia un gruppo come i Karma.Siamo stati bravi a sabotarci da soli, a farci male nel momento in cui tutto sembrava andare bene. Abbiamo pubblicato un disco che ha venduto 27.000 copie, avevamo visibilità, concerti pieni. E noi? Abbiamo deciso che il gruppo doveva “crescere individualmente”.
I Karma sono un manuale vivente di cosa non fare se vuoi far durare una band in Italia.
E oggi, dopo tanti anni, cosa vi ha riportati insieme?
La distanza. Intesa in tutti i sensi: spazio, tempo, maturazione personale. Dopo anni di percorsi solisti, dopo aver capito che la musica non è solo slancio creativo, ma anche lavoro, relazioni, ascolto reciproco, ci siamo ritrovati con una consapevolezza nuova.
Nel 2023 è uscito K3, il nostro nuovo disco e abbiamo chiuso la tournée con un sold out a Santeria di Milano.
Poi è arrivata questa ristampa, e l’abbiamo vissuta come un’occasione non solo celebrativa, ma rigenerativa. È un modo per riconnetterci con le radici, ma anche per affermare che siamo tornati per restare. Abbiamo tanti brani in cantiere, voglia di fare, e – finalmente – il tempo e la maturità per farlo con uno sguardo lungo.
Tu oggi vivi negli Stati Uniti e sei direttore creativo per Apple. Come si conciliano le due vite? L’arte e il lavoro convivono?
Sono sempre state parte della stessa cosa, almeno per me. Ho avuto la fortuna di poter spostare l’asse creativo tra musica, grafica, video. Negli Stati Uniti non è raro trovare persone che lavorano in ambito creativo e al tempo stesso fanno musica. Un esempio tra tanti: Victor Krummenacher dei Camper Van Beethoven, con cui ho lavorato, è un grafico e un musicista, come tanti altri lì.
Negli USA c’è una maggiore permeabilità tra professione e passione.In Italia tendiamo a compartimentare tutto: o sei un artista o fai “un lavoro vero”. Io ho sempre visto l’arte come un modo di stare al mondo. E anche oggi, che lavoro per un’azienda tech, continuo a scrivere, suonare, produrre. E grazie al lavoro da remoto riesco a gestire le due dimensioni. L’unico problema? Il fuso orario.
Quando sono in Italia lavoro spesso fino alle tre di notte. Ma ne vale la pena.