La notizia della scomparsa di Ornella Vanoni, avvenuta all’età di 91 anni , ha generato un’ondata di commozione che ha attraversato l’intero panorama culturale italiano, confermando la sua posizione non solo di artista di successo, ma di vera e propria icona inclassificabile.
Basta una giornata di sole per essere di buon umore!
Ci aveva detto durante una intervista in occasione dell’uscita del suo penultimo album “Unica“.
La sua carriera, oltre sei decenni di storia musicale, è proprio una giornata di sole e si impone per una longevità quasi irripetibile. Un arco sorretto da due pilastri complementari: una ricerca instancabile della qualità timbrica e un coraggio raro nella contaminazione stilistica.
La chiave della sua arte, tuttavia, risiede nella sua profonda onestà emotiva, che l’ha portata a vivere e interpretare la vulnerabilità, compresa la lotta contro l’ansia e la depressione, con una lucidità radicale, elevando il suo gesto vocale da semplice canto a confessione universale e conferendo al suo repertorio un indiscutibile spessore letterario.
La sua ossessione per l’architettura sonora affonda le radici nel teatro d’arte: l’esordio avvenne al Piccolo Teatro di Milano con le “Canzoni della mala” (1959), un repertorio “popolare di invenzione” ideato da Strehler, Dario Fo e Fiorenzo Carpi. Fin da questo battesimo drammaturgico, la canzone fu intesa come recitativo cantato e finzione letteraria, un rigore che impose da subito standard produttivi elevatissimi.
Non a caso, i suoi album d’esordio si avvalsero di arrangiatori di altissimo profilo, tra cui lo stesso Fiorenzo Carpi e, in modo significativo, Ennio Morricone , affermando che il disco non era un prodotto pop usa e getta, ma un vero e proprio oggetto d’arte sinfonico. Questa meticolosa attenzione alla produzione rimase una costante, evidente anche in dischi successivi come “Io fuori” (1977) e in operazioni concettuali come “Più” (1976), curato anche nella sua immagine da figure dell’arte visiva.
L’atto di contaminazione più coraggioso e lungimirante della sua carriera si consumò nel 1976 con “La Voglia, La Pazzia, L’Incoscienza, L’Allegria”, realizzato con Vinicius de Moraes e Toquinho .
Il progetto, che mirava a tradurre in italiano la bossa nova più sofisticata, definita dal produttore Sergio Bardotti come una forma di “blues brasileiro,” incline alla malinconia, fu rifiutato da altre dive (come Mina) per il timore di rischiare commercialmente con un concept album.
Vanoni, l’anti-Diva intellettuale, fu l’unica a sposare la profondità estetica di questo suono in minore, grazie alla sua naturale affinità con la saudade (lo struggimento brasiliano), un sentimento che aveva già imparato a interpretare con le trame oscure della mala. Attraverso questo disco, divenuto un modello di integrazione stilistica, si affermò come la principale mediatrice culturale tra l’Italia e la musica globale sofisticata, espandendo i confini del cantautorato italiano e trovando persino affinità tra il Brasile e la tradizione napoletana in una “strepitosa Anima e core”.
La sua ricerca non si è mai fermata al passato; negli anni successivi, dischi come “Sheherazade” (1981), registrato in una villa isolata a Forte dei Marmi , confermarono la sua tendenza all’esotismo ricercato e al concept album.
Questa spinta alla sperimentazione si è rinnovata anche in età matura con l’album Diverse (2020s), un progetto “estremamente contemporaneo” che ha visto la Vanoni collaborare con artisti come Mahmood ed Elodie , adottando con naturalezza “basi moderne” e confermando un inalterato standard di qualità produttiva .
La critica, riconoscendo la sua capacità di utilizzare la voce non per la potenza (come Mina, che “vola”), ma per la tessitura e la precisione emotiva (disegnando “nuove geometrie”) , l’ha definita una “sassofonessa” capace di “impennate” , un’interprete che ha sempre privilegiato il controllo e la “gestione” della nota, in linea con il rigore richiesto dalla musica italiana.
La lunghissima e complessa carriera di Ornella Vanoni può essere letta come un manuale sulla coerenza stilistica raggiunta attraverso la diversità.
Il suo successo non è stato costruito sull’adesione a un singolo genere, ma sulla capacità di muoversi fluidamente tra repertori distanti, dalla cronaca nera milanese al jazz latino, dal cantautorato intimista all’elettronica pop, mantenendo sempre un’identità vocale inconfondibile.
Il suo lascito non è solo musicale, ma umano. Vanoni ha sempre espresso la sua vita con la stessa onestà brutale con cui ha affrontato l’arte, unendo la fragilità personale (“A volte mi manca una carezza” ) alla ferocia intellettuale (“Ho sbagliato un casino nella mia vita […] Ma che me lo ripetano continuamente non è gentile” ).
L’ultimo, perfetto gesto di stile che riassume la sua intera carriera risiede nelle sue disposizioni per l’addio. Interrogata sul suo funerale, Vanoni aveva espresso il desiderio di indossare un abito di Dior e che a suonare fosse il trombettista jazz Paolo Fresu.
Questa richiesta finale è la sublimazione della sua filosofia: un omaggio commovente e definitivo al jazz e alla contaminazione, la forma d’arte che più di ogni altra incarna l’improvvisazione, la ricerca, e l’eleganza sofisticata.
Con questa scelta, Ornella Vanoni ha chiuso il cerchio della sua vita artistica, affermando la preminenza del rigore estetico e del coraggio sperimentale fino all’ultimo respiro. La sua eredità è quella di aver insegnato alla musica italiana che la fragilità non è una debolezza, ma la radice di ogni vera e duratura opera d’arte.