“Umana” è il secondo album dei Brucherò nei Pascoli. La band torna con un lavoro che affonda le mani nella realtà più fragile e disarmata del nostro tempo.
Un mosaico di esistenze — tra divorzi, dipendenze, angeli caduti e vite dimenticate — che richiama la coralità malinconica dell’Antologia di Spoon River, ma con uno sguardo contemporaneo, urbano e terreno. Dentro Umana convivono empatia e crudo realismo, racconti di persone comuni trattate con dignità, come frammenti di una collettività stanca ma ancora viva.
Il suono si fa più scuro, denso, stratificato, e insieme più libero: un equilibrio tra elettronica, post-punk, rap e derive cantautorali.
Ne abbiamo parlato con la band, che ci ha raccontato la genesi del disco, la scelta della copertina, le ispirazioni musicali e la necessità di dare voce a ciò che spesso resta invisibile.

L’INTERVISTA
Il vostro nuovo disco “Umana” sembra quasi un romanzo, un mosaico di esistenze ai margini. Ce lo raccontate?
In “Umana” abbiamo voluto raccontare vite vere, come dicevi: un mosaico di esistenze turbolente, fatte di cadute e risalite, di fragilità e di piccole vittorie quotidiane. Ci interessava dare voce a quelle storie che spesso restano ai margini, che non trovano spazio nei riflettori della musica o nei racconti “ufficiali” — le vite comuni, ma dense di significato. L’idea alla base del disco è proprio questa: restituire umanità, complessità e contraddizione a chi vive nella realtà, non nei personaggi.
Alcuni brani nascono da esperienze che abbiamo vissuto in prima persona, altri invece sono ispirati da situazioni osservate o da incontri che ci hanno colpito. Non c’è mai un intento documentaristico, ma neanche la volontà di romanzare troppo: le canzoni partono da qualcosa di reale, di tangibile, che poi si trasforma naturalmente in racconto. In questo senso, Umana è un disco profondamente empatico, perché si nutre della vita degli altri tanto quanto della nostra.
Scrivere di altri è qualcosa che ci appartiene da sempre: non è una scelta calcolata, ma un istinto. Non abbiamo mai amato l’autoreferenzialità tipica di una certa scena indie, tutta concentrata sul proprio microcosmo, sui sentimenti personali e sui piccoli drammi quotidiani. Noi abbiamo sempre trovato più ispirazione nel guardare fuori, nell’ascoltare le voci altrui, nel provare a restituire una prospettiva collettiva. Anche quando raccontiamo qualcosa che ci riguarda da vicino — come in “TVB”, nata da un lutto che abbiamo vissuto direttamente — la canzone non parla di noi, ma di chi non c’è più, di quella persona e della sua assenza.
Pensate che l’artista debba avere un ruolo sociale o politico?
Secondo noi, l’artista dovrebbe esprimere liberamente quello che sente, senza paletti. La responsabilità nasce naturalmente quando il pubblico entra in contatto con la tua arte. Non è necessario parlare di temi sociali o politici: se uno ha una sensibilità particolare, questa emergerà nella sua musica. La vera responsabilità, per noi, è fare qualcosa di autentico.
Passando al suono, come ha influito la produzione di Colliva sul disco?
Abbiamo incontrato Tommaso Colliva grazie a Fabio Senna, nostro storico produttore. Siamo arrivati da lui con le canzoni già in uno stadio avanzato e lui ha dato consigli preziosi, suggerito modifiche strutturali minime, aggiunto suoni e supervisionato la cesellatura finale. In studio era un vero e proprio lunapark: ogni suo intervento migliorava il nostro lavoro senza snaturarlo.
E le collaborazioni? Da Lamante a Edda fino alla cooperativa sociale AllegroModerato e Glitter Boy, sembrano mondi completamente diversi. Come sono nate?
Giorgia, Lamante, l’abbiamo incontrata a un concerto di Vasco Brondi e ci ha colpito subito: una mattina in studio abbiamo scritto insieme il pezzo, un’esperienza flash ma intensa. Gli Allegro Moderato sono una cooperativa che lavora con ragazzi con difficoltà psichiche e motorie: il loro contributo musicale ha arricchito il brano “Andrea”, dedicato a un bambino autistico con cui abbiamo lavorato.
Edda è una delle nostre principali influenze: il ritornello che canta nel pezzo è stato scritto appositamente pensando a lui, ed è stato emozionante sentire la sua voce anche senza registrare insieme. Glitter Boy, invece, rappresenta il mondo dei rave: il suo personaggio perfettamente incarna il tema del pezzo che lo vede protagonista.
Parlando del live, il 6 novembre al Circolo Magnolia di Milano presenterete il disco. Come vi immaginate lo show?
Ci aspettiamo un viaggio rispettoso del disco, con momenti musicali ampliati e libertà di improvvisazione. È importante portare sul palco le atmosfere e la complessità dei brani, con la potenza del suono live che amplifica ogni sfumatura.
La copertina, invece, è un’ecografia: come è nata questa immagine?
La storia della copertina di Umana è curiosa, ma anche molto significativa. Il volto che si vede è quello di Olmo, il figlio di una nostra amica. In realtà, arrivarci è stato un percorso piuttosto lungo: il disco era praticamente finito, stavamo lavorando alla parte visiva e ci interrogavamo su come rappresentarlo, su quale immagine potesse davvero raccontare ciò che avevamo dentro. Avevamo visto fotografi, idee, shooting, copertine più “patinate”, ma a un certo punto ci siamo fermati e ci siamo chiesti con onestà: noi chi siamo davvero? Davvero vogliamo presentarci con un’immagine costruita, da studio, quando tutto il senso del disco parla di umanità, imperfezione e realtà?
Da lì è nata la decisione di cercare qualcosa di grezzo, di autentico, di profondamente umano. Ci piaceva l’idea della bassa definizione come valore, come linguaggio che restituisce il contatto con il reale. È un discorso ampio, quasi teorico, ma ci interessava proprio questo: un’immagine che non fosse levigata, ma viva. In quei giorni mi è tornato in mente che avevo digitalizzato dei vecchi video girati da mio padre con la sua videocamera — quei filmati sono poi diventati il video di TVB, uscito da poco. C’era dentro la stessa idea: la memoria, l’affetto, l’imperfezione, l’occhio umano.
E poi è successo qualcosa di fortuito. Stefano ci ha mandato una foto trovata online: un’ecografia di una donna americana che sosteneva di vedere la “mano di Dio” sul volto del figlio. L’abbiamo trovata bizzarra, ma anche potentemente simbolica, e da lì è scattato qualcosa. Ho subito pensato a Francesca, un’amica, e le ho chiesto se poteva mandarci le immagini dell’ecografia di suo figlio, Olmo. Quando le abbiamo viste, siamo rimasti senza parole. Erano immagini in 4D, iperrealistiche ma allo stesso tempo surreali, sospese tra il mondo analogico e quello digitale.
Ci ha colpito la loro ambiguità: da un lato sembrano sculture di cera alla Medardo Rosso, dall’altro hanno una nitidezza tecnologica quasi spiazzante. È un’immagine che parla di nascita, di trasformazione, di potenzialità — e in qualche modo riassume tutto il senso di Umana: la vita che ancora deve venire, la materia viva che si fonde con il suono, con il digitale, con l’evoluzione. È diventata la sintesi perfetta del disco, la sua metafora visiva più autentica.
Ultima domanda: quali sono le vostre reference principali oggi?
Le reference di Umana nascono da ascolti molto diversi, ma in qualche modo complementari. Sicuramente rispetto ai nostri lavori precedenti ci siamo avvicinati a una dimensione più cantautorale, con un’attenzione diversa alla scrittura e al peso delle parole. È stato quasi un ritorno, o forse un “riscoprire”, certi autori italiani che avevamo un po’ dimenticato — da parte mia, per esempio, c’è stato un riavvicinamento ad Alberto Fortis, che con il suo modo di costruire le melodie e di dare intensità al racconto ha sicuramente lasciato un’impronta in alcuni brani del disco.
Un altro riferimento importante è stato Edda, che per noi è una figura centrale: il suo modo di scrivere è diretto, disarmato, ma capace di passare con naturalezza dal pop all’elettronica, dal rock più ruvido al folk più intimo. In qualche modo rappresenta quella libertà espressiva che cerchiamo anche noi: non rimanere chiusi in un genere, ma attraversarli tutti, lasciando che la scrittura sia il vero centro di gravità.
Durante la lavorazione di “Umana” abbiamo poi scoperto — o riscoperto — Imagine di John Lennon, che per quanto possa sembrare un riferimento lontano, ha avuto un ruolo importante. È un disco che mi ha davvero folgorato: rock, ma con aperture più morbide, più spirituali, più folk. Ci ha ispirato l’idea di un suono che resta semplice ma denso, emotivamente pieno. Non siamo arrivati a quella direzione, ma è una suggestione che ci piacerebbe inseguire in futuro.
C’è poi il lavoro di Grian Chatten, il cantante dei Fontaines D.C. uscito proprio mentre stavamo registrando: anche quello ci ha attraversato molto. Ci piace pensare che ogni disco che amiamo, in qualche modo, lasci un segno, anche solo per osmosi.
Va detto però che siamo tre teste molto diverse. Io, per esempio, ascolto tantissima musica strumentale — jazz, rock, soul, persino musica di altre culture — mentre gli altri hanno un approccio più legato alla canzone d’autore e alla scrittura. Questo crea un incastro di suoni e influenze che rende il nostro equilibrio unico. L’intro del disco, ad esempio, è nata da una sessione improvvisata tra me e Jimmy, il nostro sassofonista: io manipolavo in tempo reale i suoni del suo sax con effetti e distorsori, creando un dialogo quasi “fisico” tra acustico e digitale.
C’è quindi una componente di sperimentazione e improvvisazione che attraversa tutto “Umana”, anche nei brani più “classici”. È quella tensione continua tra struttura e libertà che ci rappresenta: il tentativo di unire la scrittura italiana con un suono aperto, internazionale, e con l’imprevedibilità dell’istinto.

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ABOUT
I Brucherò nei pascoli sono Davide, Stefano e Niccolò. Scrivono canzoni senza barriere di genere, spaziando dal rap al rock, dal jazz all’elettronica. Nel 2023 firmano con l’etichetta Woodworm e Rolling Stone li segnala come uno dei progetti più interessanti della scena musicale emergente. Palo, il loro primo album, è un mix di stili accomunati da un’attitudine punk e sensibilità creativa, che si riversa anche nella scrittura dei videoclip firmati dalla stessa band (Ghicci Ghicci è tra i finalisti del Videoclip Italia Awards). Nel 2024 producono insieme a Crookers l’EP NOLOTOV, denunciando il tema della gentrificazione. Sono la prima band ad aver collaborato con un automa, Sophia the Robot, per la realizzazione dell’EP Call Me Resurging, presentato in Triennale Milano a giugno 2025. Il disco segna per la band il primo passo verso una riflessione sul concetto di “umanità” che li porterà a concepire il loro secondo album ufficiale Umana (2025), supportati dal contributo produttivo di Tommaso Colliva.