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HOLLY JOHNSON il ritorno nel suo Pleasuredome anni ’80 [Scaletta e Gallery]

holly-johnson-milano-061025- ph, giovanni.daniotti

Ci sono serate in cui il tempo si piega, come un vecchio vinile che torna a girare sotto la puntina.

Al Teatro Arcimboldi, Holly Johnson (LEGGI L’INTERVISTA) riporta Milano dentro il suo Pleasuredome personale: un viaggio nel 1984 (“Welcome to the Pleasuredome” usciva il 29 ottobre 1984), quando i Frankie Goes to Hollywood sconvolgevano l’Inghilterra e la pop culture con un mix esplosivo di erotismo, ironia e sovversione patinata.

Prima dello spettacolo si respira un’attesa dolce e sospesa, da veri reduci di un’epoca che non smette di pulsare nei synth e nelle atmosfere wave.

Alle 21.20, quando le luci si abbassano e parte quel groove ipnotico, Johnson appare in pelle nera, occhiali da aviatore e una imbarazzante estensione fallica da sexy shop– l’ennesimo gesto di ironia glam, come se non fosse mai sceso dal palco di Top of the Pops. E in un attimo, quarant’anni svaniscono.

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ph: giovanni.daniotti

Il set si apre nel segno di Welcome to the Pleasuredome: visionario, sensuale, irresistibilmente pop. Certo, Holly non ha più la leggerezza di un tempo, ma resta un animale da palcoscenico. Si muove sicuro, attraversa le sue hit con una calma magnetica, consapevole di essere parte della memoria collettiva di una generazione. Americanos arriva come un inno satirico, un sorriso ironico in faccia al potere, seguito da una vibrante Rage Hard dal piglio di protesta.

Poi Love Train: Johnson la introduce con quella sfrontatezza britannica che è sempre stata la sua cifra. Il palco vibra, la platea ondeggia e balla comoda sulle poltroncine dell’Arcimboldi.

La parte finale del set è un climax. Parte con una cover non memorabile di Born to Run di Springsteen, così come una versione di War di Edwin Starr, che scuote l’aria ma non infiamma. Two Tribes diventa un bollettino di guerra del nostro tempo e infine Relax: il capolavoro, la deflagrazione, il momento in cui il pubblico si abbandona, come se l’edonismo fosse di nuovo una forma di liberazione.

Il bis, naturalmente, è The Power of Love: lenta, solenne, pura, teatrale. Johnson la canta con la grazia di chi ha vissuto tutto e ne è uscito con la voce intatta e un cuore grande. Quando il pubblico si alza in piedi, lui sorride, visibilmente commosso: un uomo che ha attraversato mode, crisi e decenni, e che stasera, a Milano, ha ritrovato la propria pleasure.

Un’ora e mezza, niente di più, ma abbastanza per capire che non si tratta solo di nostalgia. È qualcosa di più profondo: la certezza che certe canzoni non passino mai davvero, ma restino lì, a ricordarci chi siamo stati quando la musica sapeva ancora scandalizzare, consolare e far sognare.

LA SCALETTA

Welcome to the Pleasuredome
Black Night White Light
Warriors
Love Has Got a Gun
Americanos
Atomic City
Heaven’s Here
Rage Hard
Love Train
Penny Arcade
Watching the Wildlife
Born to Run (cover di Bruce Springsteen)
War (cover di Edwin Starr )
Two Tribes
Relax

The Power of Love

LA GALLERY 

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Immagine 3 di 9

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