A Madrid, tra le luci soffuse di uno studio Apple Music, Rosalía si racconta a Zane Lowe con l’intensità di chi ha appena attraversato un nuovo confine artistico.
“Lux”, il suo quarto album è il frutto di un percorso di esplorazione sonora e linguistica che intreccia tradizione e avanguardia: dalla collaborazione con la London Symphony Orchestra ai dialoghi ideali con Björk, fino alla scrittura in tredici lingue. Un lavoro che riflette sul potere delle voci femminili, sulle radici iberiche e su quella tensione costante tra rigore e libertà che definisce l’universo di Rosalía.
L’INTERVISTA
Volevo solo andare a vedere Los Carteles, andare a vedere le luci. Puoi uscire, sì, ma è un momento divertente. È un momento bellissimo, quando finalmente puoi dire: “Ok, ora l’album è finito” e arriva il momento di condividerlo. A volte è scoraggiante quanto ci voglia, ma credo che mi stia insegnando la pazienza. Ogni progetto mi insegna un po’ di pazienza in più.
Mi è piaciuto molto ciò che hai detto su Leonard Cohen e sull’idea di completare un disco in tre fasi. Quell’area in cui ci si può sentire smarriti, perché non ti appartiene più: prende vita da solo. Dev’esserci stato più di un momento del genere durante la creazione di questo disco.
Sì, perché sono passati tre anni. E in tre anni può succedere di tutto, tantissime cose. Ma adoro che Leonard sia una grande ispirazione per me. Ripetevo spesso una frase che diceva mentre facevo l’album: “Dimentica la perfezione. C’è una crepa in ogni cosa. È così che entra la luce.”
E credo che volessi proprio questo: che la luce entrasse. E volevo che si chiamasse Lux per rappresentare come creare più spazio perché la luce possa entrare.C’è qualcosa che mia sorella mi ha detto e che mi è rimasto impresso, quando le ho fatto ascoltare MOTOMAMI.
Cosa ti ha detto?
Eravamo in macchina, le ho fatto ascoltare un brano. Ha notato una specie di tic musicale e mi ha detto: “Perché devi sempre distruggere la canzone?” Mia sorella è così: molto diretta, ma anche la mia migliore amica, e la amo tantissimo. Quando me l’ha detto, ci sono rimasta malissimo. Le ho risposto: “Ma che stai dicendo?” e ho iniziato a discutere con lei. “No, non capisci, ha senso! Questa interruzione qui…”
Ma alla fine quella frase mi è rimasta in mente. Mi sono chiesta: “Aspetta, perché faccio musica? Faccio musica perché la gente provi qualcosa, giusto? E forse sentiranno di più se vado fino in fondo. Forse non mi sto permettendo di andare fino in fondo. Forse scrivo canzoni, ma non completo davvero il pensiero.” Così mi sono promessa che avrei fatto un album in cui avrei provato a finire ogni pensiero, ogni canzone — fino alla fine.
Credo che grazie a questo album io sia cresciuta come autrice, arrangiatrice e produttrice proprio per questo: perché ho deciso di andare fino in fondo, e non di spezzare le canzoni qua e là. No, questo è il pensiero, e voglio vedere fin dove posso portarlo.
Parliamo nello specifico di “Mio Cristo.”
Sì. Quella canzone mi ha portato via un anno intero. Un anno di lavoro.
E ti ringrazio per averla completata, perché è un brano straordinario. Ma come sentimento, come storia: è un apprezzamento generale o parla di qualcuno in particolare? È scritta con tanta delicatezza…
Credo che l’intero progetto abbia quell’equilibrio. Ho trovato molto bello e ispirante scoprire la storia di Santa Chiara d’Assisi e San Francesco d’Assisi: a quanto pare avevano un legame fortissimo, un’amicizia profonda. E mi sono detta: “Ok, voglio provare a scrivere di un’amicizia così. Come sarebbe?”
E hai amicizie simili a cui puoi riferirti?
Sì, l’album contiene sempre una verità legata a ciò che ho vissuto. Altrimenti non potrei scriverlo.
In più è in italiano. All’inizio scrivevo in spagnolo, poi mandavo il testo a un traduttore, e usavo anche Google Translate, andando avanti e indietro per un anno intero. Ci sono voluti moltissimi tentativi davanti al pianoforte per comporre l’aria. Ricordo che dicevo a Noah: “Voglio davvero scrivere un’aria, ma ho bisogno di tempo per studiare la struttura, per capire come si scrive.”Così ho passato un anno a Miami, a lavorarci in una casa lì. Alla fine, improvvisando, ho trovato il tema al pianoforte — poche note con la mano sinistra per capire gli accordi. Poi ho portato il brano a Los Angeles, ho continuato a lavorarci, e un giorno, in studio, ho pensato: “Finalmente, ho la mia aria.” Non so nemmeno se sia davvero un’aria, ma ne è ispirata.
Perché hai scelto di esprimere quel momento di riflessione, “la regina del caos”, in giapponese?
Perché c’era una santa giapponese, Ryōnen Gensō. La sua storia mi ha colpita molto: si deturpò il viso pur di essere accettata in un monastero. Un gesto estremo, un sacrificio enorme per ottenere ciò che voleva. Mi ha affascinato come qualcosa di così radicale possa essere percepito come follia. Ma a volte l’estremo viene semplicemente etichettato come tale.
Pensi che quello sia stato un gesto estremo?
Chi sono io per giudicare? Ognuno ha il proprio percorso. Per me, Rosalía, sarebbe stato difficilissimo fare una cosa simile — quindi lo considererei estremo per me, ma non per lei.
Qual è stata l’ultima canzone su cui lavoravi quando hai capito che era ora di fermarti?
Tutte, contemporaneamente.
Davvero?
Sì, è sempre tutto insieme. È un processo in cui tutto accade nello stesso momento. Sto imparando a convivere con questa incertezza. Alla fine ho dovuto “abbandonare” il disco e mandarlo in stampa. Poi ho cambiato ancora alcune cose nella versione digitale: alcune canzoni sul vinile sono leggermente diverse. È stato un processo a più fasi, in continua evoluzione.
Per quanto tempo hai lavorato con la London Symphony Orchestra?
Molto poco, forse tre giorni o qualcosa del genere, tre o quattro giorni.
Hai fatto tutto questo in tre o quattro giorni?
Sì. Era già tutto scritto, tutto arrangiato, tutto preparato con grande precisione, così da arrivare lì con gli spartiti e dire: “Ecco, questo è esattamente ciò che deve succedere. È così che lo vogliamo. Proviamo solo qualche variazione d’intenzione, magari un po’ di più o un po’ di meno, oppure testiamo questa o quella soluzione.” Dovevamo essere molto precisi, molto concentrati, tipo: “Ok, no, in realtà qui dovrebbe esserci solo il timpano che fa questo o quello.” Ma era tutto scritto. Ricordo che il tema di “Porcelana” era ispirato a un basso in stile Amapiano, ma con un timpano. Avevamo già tutto ben definito, e si trattava solo di arrivare in studio e dire: “Questa è la linea. Questa è la linea melodica che ci serve.” Boom, l’abbiamo registrata.
Hai deciso di introdurre l’album con “Berghain”, che adoro. È bellissima, ma anche incredibilmente energica. Inizia aggressiva, finisce aggressiva — è una dichiarazione molto forte. Puoi raccontarmi il processo mentale dietro la scelta di dire: “Ehi, sono tornata, prendete questo”?
Perché no? Davvero, perché no? Credo che sia un brano rappresentativo dell’intenzione orchestrale che attraversa tutto l’album. E poi, adoro quando un artista fa questo effetto su di me. Mi piace quando un artista mi “schiaffeggia”, quando mi sorprende con qualcosa che musicalmente non mi aspettavo, che non avevo previsto.
Una provocazione, in un certo senso.
Solo un po’.
Una provocazione consapevole.
Sì. Sento che l’album inizia in modo delicato, volevo proprio che iniziasse così, con dolcezza. Penso che chi ascolterà il progetto sentirà questa sensazione di morbidezza, che è molto presente in tutto il disco. Ma poi, pubblicare “Berghain” come primo brano è anche un modo per dire: “Non rifaremo MOTOMAMI.” Trovo interessante quanto in quella traccia sia spinta la componente orchestrale. Contiene davvero tutto: la piena orchestra, il coro, tutto. È forse il modo di dire: “MOTOMAMI era minimalismo, pochi elementi. Questo è massimalismo. Brutalista.” Non “grande”, ma brutalista. Penso che “Berghain” rappresenti tutto questo: contiene ogni elemento, tutto insieme.
È intitolata al club?
In un certo senso. Ho sempre desiderato andare in quel club, ma non ho mai avuto il coraggio.
Eppure, “Berghain” è sempre stato lì, nella mia mente. Tra l’altro, “Berghain” significa “un gruppo di alberi nella foresta”, e penso che tutti noi abbiamo questi labirinti nella testa, queste foreste di pensieri in cui ci si può perdere. Quindi “Berghain” può non essere un luogo, ma la tua mente. È la tua mente, è la mente di tutti.
Parlando di menti, ora che hai potuto lavorare con Björk, mi sembra che—
La migliore.
In un certo senso sei una “figlia di Björk”.
Madre. È mia madre, madre, madre, madre, assolutamente.
Già. Ora che avete collaborato di nuovo, trovato uno spazio per lavorare insieme e costruire qualcosa, parliamo di Björk.
La amo. È semplicemente la migliore, la più ispiratrice. Forse la persona più ispiratrice in assoluto.
Lei e Patti Smith sono le mie due preferite, le mie “madri”. Entrambe sono così libere, così irriverenti… È ciò che più mi ispira: come una donna, un essere umano, possa essere così libero, straordinario, appassionante, complesso, contraddittorio.
È incredibile il modo in cui creano, come continuano a creare, mantenendo sempre quella passione.
Ho visto Patti l’altro giorno qui a Madrid, si esibiva in “Horses”. È stato pazzesco, una vera lezione magistrale. Vederla sputare sul palco con tanta grazia e totale disinvoltura…
Senza fregarsene di niente.
Esatto. È così che dovrebbe essere sempre: non curarsene. Ricordarsi di non preoccuparsi troppo — penso sia importante. Durante questo progetto ho avuto alcuni mantra, e questo era uno: “Non frega niente.” Ma davvero, è importante. E poi avevo questa tazza, che ho disegnato con la mia amica Alexa, su cui ho scritto in un’altra lingua: “Scrivi, tendi l’arco e dì la verità.” È quello che ho cercato di fare per tutto il tempo con questo album. Ogni mattina mi preparavo il tè in quella tazza, la leggevo e pensavo: “Ok, questo è l’obiettivo di oggi.”
Se la pressione crea diamanti, perché non brilliamo tutti?
Già.
Non credo che avrei potuto cantare, nei miei album precedenti, come canto in questo.
Cosa è cambiato?
Il modo in cui scrivo, ad esempio, mi ha permesso anche di cantare in modo diverso. Credo che non si possano forzare le cose. Ricordo che in MOTOMAMI già volevo spingere i limiti della mia voce come ho fatto in questo disco, ma non ci riuscivo ancora. Perché? Ci ho pensato molto in questi anni, e ho capito che era per via della scrittura. Non ero ancora in grado di scrivere in un modo che mi permettesse di pensare così. Serve un’apertura, un abbandono che arrivano solo quando li lasci accadere. Se vivi così, se ti permetti di scrivere da quel luogo, allora puoi anche cantare da lì. Puoi raccontare da lì. Perché è la tua verità.
E anche se in quel momento avrei voluto che la mia verità fosse un’altra, ero in un altro punto del mio percorso. La spiritualità, per me, è sempre stata presente, in un modo o nell’altro. Il mio legame con Dio è sempre stato lì.Penso che quando scrivi con altre persone, loro possano spingerti a fare le cose in modi diversi e a capire la scrittura da un altro punto di vista. E a me interessa sempre imparare.
Ma ora che hai passato così tanto tempo a scrivere, dev’essere ancora più aperto per te questo processo. Dal tuo punto di vista, Lux è stato un esercizio per spingerti come autrice verso la tua verità?
Al cento per cento, sì. E non ho cercato di scrivere cinquanta canzoni. No.
Sai, a volte sento dire che alcuni artisti scrivono sessanta canzoni, cinquanta canzoni, e poi scelgono quali finire. Io non faccio così. Non l’ho mai fatto. Ho scelto di lavorare solo sui brani che volevo davvero creare — ad esempio un’aria, oppure una canzone più ispirata a Rabi al-Adawiyya, una mistica sufi molto venerata nell’Islam.
Quale canzone è?
“La Yugular.”
Oh mio Dio.
E c’è anche dell’arabo nel testo. Così ho pensato: “Ok, farò una canzone così, e poi un’altra di questo tipo.” Mi concentro sull’idea che voglio sviluppare e la porto fino in fondo. Non cerco di fare cinquanta brani Ne faccio diciotto. E li finisco.
Rosalía racconta il brano “Memória” e la collaborazione con la cantante di fado portoghese Carminho
“Memória”, sì. Carminho ha scritto quel testo. È una grande autrice, e adoro che abbia voluto condividerlo con me. Me l’ha mandato e io ho pensato: “È pazzesco, è perfetto.”
Si lega perfettamente a ciò di cui parlo nell’album: quanto possiamo dimenticare chi eravamo e chi siamo.
E anche il ricordarsi di me e delle mie imperfezioni. Sai, spesso chi sta per andarsene dice: “Ricordami con affetto”, oppure “Pensa a me con dolcezza.” Ma in realtà è: ricordami in tutto. Mi piace il modo in cui lo canti — c’è un momento in cui la tua voce cambia e diventa più profonda, più risonante. È un passaggio potente nel modo in cui interpreti la canzone.
“Memória.”
Cosa ti ha ispirata a farlo così?
Queste parole, dopo averle cantate con il petto così aperto, diventano una sorta di confessione.
Molte volte i ricordi sono reali, ma altri sono un po’ costruiti. C’è una vulnerabilità in questo.
La maggior parte, direi.
Sì, esatto. Ci sono entrambi. Forse era una confessione per dire che alcuni ricordi della mia vita potrebbero essere più veri di altri. A volte li racconto in un modo, a volte in un altro. Ma ogni volta che li racconto, in quel momento, quella è la mia verità. Questa è la mia verità, e dentro c’è verità. Mi piace quanto la memoria sia imperfetta. E sì, penso che volessi solo creare un po’ di dinamica nella canzone — momenti più morbidi, più sommessi.