Il tempo non si possiede, si attraversa. E Laila Al Habash lo racconta come un organismo vivo, che si dilata e si restringe a seconda di quanto impariamo a starci dentro.
“Tempo” è il nuovo album della cantautrice romana di origini palestinesi, un disco nato da un sogno e da un’urgenza: capire come si vive in un’epoca che corre alla velocità della luce.
Dopo Mystic Motel Laila torna con un lavoro scritto in solitudine, durante un’estate sospesa in una città vuota, a osservare le proprie ansie e la sensazione di essere “vecchia e precoce insieme”.
Mescola lingue e mondi – italiano, inglese, arabo – costruendo un pop pieno di colore, ma attraversato da domande profonde sul tempo, sull’amore e sulla società. Dentro ci sono i fantasmi luminosi di Raffaella Carrà, Bruno Lauzi e Califano, il gusto per la melodia popolare e la lucidità del presente. Tempo è un disco che invita a rallentare, a respirare, a tornare al centro.
L’abbiamo incontrata per parlare di modelli, di epoche musicali e di cosa significhi fare arte oggi, in un mondo che sembra sul punto di crollare ma ha ancora bisogno – disperatamente – di bellezza.

L’INTERVISTA
“Tempo” è il tuo nuovo album. Qual è il tuo tempo? Qual è la tua dimensione del tempo?
È una domanda enorme, ma in realtà è proprio da lì che nasce tutto. Il titolo mi è stato letteralmente suggerito in sogno, qualche anno fa, mentre stavo finendo il mio primo disco. Ricordo che mi dissi: “Il prossimo si chiamerà Tempo”. Non sapevo ancora perché, ma avevo scritto una frase sul telefono: è una cosa che hanno tutti e non ce l’ha mai nessuno, è gratis ma nessuno sa come spenderla.
Quel nome è diventato una bussola. Col tempo ho capito che questo disco parlava proprio del mio rapporto con il tempo, con l’età, con la crescita.
Sono sempre stata “fuori fase”: da piccola mi dicevano che sembravo più grande, ma nessuno mi prendeva sul serio; ora che ho 26 anni, mi sento ancora in bilico, sempre in corsa per arrivare da qualche parte. Fare questo disco è stato un esercizio di osservazione: più che trovare risposte, mi interessava capire il viaggio. Ho imparato, lentamente, che il presente è un luogo difficilissimo dove stare.
È il tuo secondo album dopo “Mystic Motel”, e il secondo disco è sempre quello più difficile. Com’è nato “Tempo” e come hai scelto la copertina con i tappeti?
Guarda, in realtà “Tempo” è nato molto prima delle canzoni. Avevo già il titolo e la copertina in mente, ma non una nota. Ho sempre avuto un legame fortissimo con i tessuti: il mio primo EP si chiamava Moquette, poi “Mystic Motel” aveva quell’immaginario di stanze, tappezzerie, moquette… e sono cresciuta in una casa piena di tappeti arabi.
Non riesco a immaginare un posto che chiamo “casa” senza un tappeto grande sul pavimento.
Nel 2021 ho conosciuto Mehran Farmand, figlio del proprietario della Farmand Gallery, una galleria di tappeti antichi a Roma.
È stato lui a dirmi: “Perché non fai la copertina qui?”. Ed è stato come se mi avesse acceso una lampadina: tutto aveva senso. Abbiamo scattato lì, semplicemente io e un tappeto. È un’immagine che racchiude perfettamente il senso del disco: qualcosa di antico, vissuto, che però ti accompagna nel presente.
“Tempo” è anche un disco profondamente generazionale. Viviamo nell’ansia di fare tutto, di essere sempre produttivi. È come se avessimo sempre meno tempo. Credi che una volta ce ne fosse di più?
Non lo so, ma penso che ogni epoca abbia pensato di vivere la fine del mondo. Forse solo i boomer no (ride), loro avevano ancora fiducia nel futuro.
Sicuramente oggi viviamo in una società che ti elogia se sei super-performante, se hai già dieci traguardi a vent’anni.
Siamo costantemente paragonati agli altri: vendite, streaming, risultati… e finisci per non avere più un tuo ritmo interno. Io per prima lo vivo con ansia.
Credo che dovremmo reimparare a “perdere tempo”, a fare cose che non servono a niente. I momenti di non azione, quelli in cui non produci nulla, sono i più preziosi.
Quando sono ferma, quando viaggio in treno, quando non faccio “niente”, in realtà capisco tutto. È lì che realizzo davvero le cose.
Viviamo in una società che lega il valore personale alla produttività. Io stessa ho dovuto ricordarmi che se non faccio niente… valgo comunque qualcosa.
Nel disco emerge anche un altro tema forte: il desiderio. Come si concilia con il tempo? È ancora possibile desiderare, in un’epoca che sembra non averne più?
Il desiderio è la mia parola preferita del disco, forse anche la più misteriosa. Non credo che sia sparito, ma è sicuramente cambiato. Viviamo in una società che ti impone di desiderare continuamente cose materiali, obiettivi, traguardi. Io nelle canzoni parlo di un desiderio più grande, più esistenziale: cos’è una cosa che esiste solo quando non ce l’hai?
Il desiderio vive di fame, non muore di fame. È la spinta che ti tiene viva, creativa. Per questo nel brano Desiderio ho voluto lasciarlo libero, senza struttura. È un pezzo che sta nel disco perché racconta la fame stessa del fare musica, senza scopo apparente.
In Timido invece racconti un viaggio, forse ispirato al Brasile.
Esatto. Sono stata in tour in Brasile e mi sono accorta di una cosa assurda: io che mi sono sempre considerata una persona espansiva, lì sembravo timida! (ride) Lì tutti sono solari, spontanei, aperti. E mi sono chiesta: “Ma quindi chi sono io, davvero?”.
Da quella sensazione è nata la canzone. Timido è un pezzo con un ritmo più leggero, quasi bossa, che gioca proprio con l’idea di rimettersi in discussione.
In generale, il viaggio è sempre stato fondamentale per me. Spendo quasi tutti i miei soldi per viaggiare, anche se negli ultimi anni ho un rapporto più critico con il turismo. Non serve andare dall’altra parte del mondo per cambiare prospettiva: a volte basta fare il raccordo anulare. Io le mie prime canzoni le ho scritte proprio lì, in macchina. Era un viaggio anche quello.
Il tuo ultimo viaggio qual è stato?
Aspetta… l’ultimo viaggio vero è stato in Grecia, a settembre. Un’isoletta sperduta nelle Cicladi. Poi sì, faccio sempre Roma-Milano due volte al mese, ma quello non vale.
Quel viaggio invece sì: mi è servito per fermarmi un attimo, per respirare.
Nel disco citi Bruno Lauzi e Iva Zanicchi. Quali sono i tuoi modelli, i tuoi riferimenti?
Sono sempre stata visceralmente attratta dalle canzoni italiane scritte tra gli anni ’50 e ’70. Mi affascina scovare le gemme nascoste, i lati B dei dischi che nessuno conosce.
Mia madre è la mia prima fonte: è lei che mi ha messo in contatto con quel mondo, il mio benchmark.
Se lei dice “questa non la conosco”, ho vinto. È stata lei a farmi ascoltare Come ti vorrei di Iva Zanicchi, una canzone che sentivo da bambina.Credo tantissimo nel rapporto tra tempo e musica. Ogni epoca ha raccontato l’amore e la vita a modo suo. Penso a Califano, che scriveva con una sincerità disarmante, o a Max Pezzali, che trent’anni dopo parlava delle stesse cose ma dentro la pianura padana. È lo stesso sguardo umano, solo con paesaggi diversi.
In Voglia c’è proprio questo: è una risposta ideale a E salutala per me di Raffaella Carrà. Mi ha sempre colpito quella canzone in cui lei dice a quest’uomo “non dire bugie, so già cosa stai facendo… salutala per me”. Un modo fortissimo, quasi rivoluzionario, di parlare da donna negli anni Settanta.
Ho voluto scrivere una canzone che avesse la stessa schiettezza, anche se racconta una storia di un’amica.
Le mie influenze sono sempre ibride: Bruno Lauzi per la scrittura, Enzo Carella per la sensibilità, tutto quel mondo lì che continua a nutrirmi.
Secondo te sei nell’epoca musicale giusta? O avresti voluto vivere in un altro tempo della musica?
Penso che chiunque ti direbbe che avrebbe voluto vivere in un’epoca in cui si vendevano i dischi, in cui la gente si fermava ad ascoltarli davvero. Oggi escono sessanta album al giorno, non sessanta all’anno. Ma allo stesso tempo, è il nostro presente, e va bene così.
Certo, mi sarebbe piaciuto vivere in un tempo con più spazio per l’attenzione, per la concentrazione. Però non idealizzo il passato: anche i Beatles si lamentavano che non avevano soldi! Ogni epoca ha le sue fatiche. Forse tra vent’anni dirò: “che figata quando avevamo 15 anni e c’era la Dark Polo Gang”. È facile avere nostalgia di tempi che non hai vissuto.
Non so la ricetta giusta, ma credo che stare nel momento — essere davvero presenti a sé stessi — sia già molto.
Prima accennavi al senso costante di apocalisse che ci accompagna oggi. In un momento così complesso, che senso ha fare musica e cultura?
Fare arte è una forma di respirazione. È inevitabile. Anche se lo fai da sola, in casa tua, è un gesto umano, naturale. Per questo mi dispiace quando l’arte viene trattata come un hobby, o come qualcosa di “inutile”.
Dovrebbe essere l’opposto: è ciò che ci definisce come specie, da sempre. Prima ancora di parlare, abbiamo iniziato a cantare, a disegnare, a danzare. L’Italia vive un paradosso: siamo un Paese che deve tutto alla cultura, ma la tratta come se non fosse importante.
Durante la pandemia lo abbiamo capito: senza concerti, cinema o libri stavamo impazzendo. L’arte è essenziale.
E proprio perché viviamo tempi difficili, c’è bisogno di esprimere quello che sentiamo. Non per forza in modo esplicito, ma lasciando che le emozioni trovino un canale. È inevitabile.E poi, sul piano pratico, serve anche alzare la testa: manifestare, scendere in piazza, dire quando qualcosa non va. L’Italia non lo fa spesso, ma quando succede — come nelle manifestazioni per la Palestina — senti che la cultura può ancora unire e dare voce.
Troverai il “Tempo” per portare il disco live?
Assolutamente si! Il disco è pensato per essere suonato dal vivo, la dimensione che amo di più. Per tutto il tempo ho avuto l’impressione che stavamo scrivendo ogni canzone, immaginandola in funzione di un concerto dal vivo”.
LA TRACKLIST

1.Ritento
2.Fumantina
3.UFO
4.Che lavoro fai
5.Voglia
6.Mi servi
7.C’è tempo
8.Desiderio
9.Timido
10.Sahbi
11.Sogno86
12.Tuareg
ABOUT
Laila Al Habash è una cantautrice pop nata a Roma e di origine palestinese. Le sue icone sono Raffaella Carrà e Mina. L’artista ha all’attivo un album e due EP e collaborazioni con Coez, Studio Murena, Stabber e Maria Antonietta. Ha aperto i live dei Coldplay al Maradona di Napoli e al Lido di Camaiore di Lana Del Rey. Ha sempre avuto, con la sua musica, uno sguardo fuori dall’Italia: negli ultimi anni è stata in tour in Brasile, in Germania, negli Emirati Arabi e in Marocco.
Laila Al Habash è una delle nuove voci della musica italiana, scelta da “Radar Italia” per Spotify e da “Breakthrough Italia” per Amazon Music. Nel 2021 è stata ambassador della playlist Spotify EQUAL, con il billboard in Times Square a New York a lei dedicato.