Alvaro Soler torna con “EL CAMINO”, un album che non è soltanto una raccolta di brani ma un vero e proprio viaggio: un road movie musicale che riflette sul passato, fotografa il presente e immagina il futuro.
A dieci anni esatti dall’exploit di “El Mismo Sol” (2015), il cantautore 34enne rinnova il suo pop latino con una scrittura più matura e un lavoro di ricerca che intreccia strumenti antichi e sample originali, registrazioni tra Berlino, Barcellona, Londra, Miami e l’Africa orientale. Un progetto che riscopre anche la fisicità della musica, con una forte attenzione al vinile e all’ascolto come rito.
Lo abbiamo incontrato in una Milano di fine estate. Nella conversazione ha raccontato due direzioni fondamentali: la voglia di sperimentare senza confini e la leggerezza di una nuova fase personale — quella di chi, diventato marito e padre, ha ritrovato l’equilibrio necessario per fare musica davvero sentita. “EL CAMINO” nasce da questa doppia tensione: artigianato sonoro e desiderio di restituire alla musica la sua dimensione più autentica e rituale.
L’INTERVISTA
In un momento in cui la musica viene spesso consumata velocemente, come pensi che si inserisca “El Camino” nella società di oggi?
Io credo che stiamo vivendo una specie di rincorsa: facciamo sempre più cose insieme e l’ascolto è diventato multitasking. Però vedo una controtendenza: la ricerca di momenti che siano rituali, dedicati — sedersi, spegnere le notifiche, e ascoltare.
“El Camino” nasce da questa idea: non è solo una raccolta di singoli, ma un percorso sonoro pensato per essere attraversato.
Per questo ho lavorato anche sulla fisicità del disco — il vinile, la sequenza dei brani, le pause — perché credo che l’ascolto intenzionale possa restituire profondità alle canzoni. La cultura digitale non sparirà, ma l’album come esperienza narrativa e rituale può tornare a essere uno spazio di recupero dell’attenzione e dell’immaginazione collettiva.
Dal punto di vista della scrittura, che evoluzione rappresenta questo album per te?
Sui testi mi sono imposto una disciplina nuova: smettere di cercare la soluzione più ovvia per la rima e provare parole e immagini diverse, più mature. Non è stata solo una scelta estetica: era una necessità di crescita come autore. Ho voluto spostare il baricentro del racconto verso sfumature emotive meno scontate. Musicalmente, la ricerca è stata altrettanto radicale: ho registrato strumenti veri, alcuni antichi, per portare nel pop moderno timbri che non si sentono spesso — non come vezzo etnico, ma come materia sonora che dialoga con l’elettronica.
Ho costruito molte delle texture del disco con miei sample: piccoli suoni registrati, manipolati, inseriti come tappeti e micro-ambienti sotto le canzoni. In più sono tornato a produrre attivamente: questo mi ha costretto a mettere le mani sul suono in prima persona, a decidere micro-dettagli che prima delegavo. Il risultato, per me, è una maturazione sia testuale sia timbrica.
Hai parlato di strumenti antichi — puoi raccontarne qualcuno e spiegare come li hai usati nelle tracce?
Sì: ho visitato collezioni private e luoghi dove sono conservati strumenti rari, e ho registrato oggetti che portano con sé una storia fisica — per esempio un tronco-strumento indonesiano usato anticamente per comunicare al villaggio. Questi suoni diventano poi materiale di produzione: li campiono, li stratifico, li trattano con riverberi e saturazioni per costruire paesaggi sonori che stanno sotto le melodie. È un modo di collegare l’antico e il contemporaneo, la memoria fisica dello strumento e la modernità di una produzione pop.
Ti hanno spesso etichettato come autore di “tormentoni” estivi. Ti ha infastidito?
All’inizio sì, perché certe canzoni nascevano da pensieri complessi e venivano ridotte a stereotipi stagionali: “musica spagnola = spiaggia e festa”. Ho fatto esperimenti con suoni ed atmosfere diverse — anche tracce più malinconiche o elettroniche — e ho visto che il pubblico spesso le interpreta attraverso filtri culturali preesistenti. Col tempo ho smesso di litigare: la bellezza della musica è che può parlare a tante persone in modi diversi. Il mio invito rimane quello di ascoltare l’album per intero: ci sono molte sfumature che il singolo radiofonico non riesce a raccontare.
E sul fronte live? Possiamo aspettarci un tour per promuovere l’album?
Sì: ci sarà il Camino Tour nel 2026. Al momento le prime date confermate riguardano il Nord Europa; Spagna e Italia sono incluse nel progetto e le stiamo definendo, ma non sono ancora ufficializzate. Organizzare un tour oggi significa anche ripensare la scaletta e il suono dal vivo: voglio che il concerto renda la dimensione narrativa dell’album, ma senza perdere la connessione immediata con il pubblico — cioè mescolare l’intimità del disco con l’energia dello show. Appena saranno pronte le date ufficiali verranno annunciate sui miei canali.
Come ha cambiato il tuo rapporto con la musica il fatto di essere diventato padre?
È stato un cambio profondo. Prima la musica occupava tutto lo spazio mentale — la prendevo molto, forse troppo, sul serio. Diventare padre e marito ha introdotto nella mia vita routine e responsabilità che mi hanno dato leggerezza: ho imparato a non drammatizzare ogni cosa, e questo paradossalmente ha aperto nuove strade creative. La serenità personale ti permette di avere sguardi più lucidi sulle canzoni, di scrivere senza l’urgenza patologica del successo. Certo, la logistica è più complessa — conciliare viaggi e famiglia non è facile — ma la qualità della vita privata si riflette nella sincerità della musica: quando stai bene, scrivi da un luogo più vero.
Qual è il luogo ideale, secondo te, per ascoltare El Camino?
Ce ne sono due che suggerisco con convinzione. Il primo è l’ascolto solitario e immersivo: in una stanza buia, con le cuffie, chiudendo gli occhi. In quel contesto l’orecchio può seguire i dettagli timbrici, gli strati di suono, le piccole transizioni che ho costruito. Il secondo è l’ascolto in viaggio, in macchina: il disco diventa allora un road-movie sonoro, la musica si allarga nello spazio e crea immagini diverse. Entrambe le situazioni rispettano l’idea che l’album debba essere vissuto come un percorso, non solo come singoli isolati.
Se ti guardi indietro, l’Alvaro di dieci anni fa si riconoscerebbe?
Sì — e lo dico con tenerezza. L’essenza rimane la stessa: la passione per la melodia, la curiosità per le sonorità, la voglia di comunicare. Dieci anni fa ero molto più timido e insicuro; l’impatto della scena e il successo ti mettono dentro un vortice che ti obbliga a imparare sul campo. Oggi ho più fiducia, e questa fiducia si è costruita attraverso errori, viaggi, incontri. Se tornassi indietro gli direi: “Hai fatto bene a buttarti, imparerai tantissimo”. La crescita è stata più personale che tecnica: la musica ti forma come persona.
E fra dieci anni come ti vedi?
Mi auguro di continuare a fare musica con lo stesso amore, anche se in forme diverse. Spero di mantenere l’equilibrio che ho trovato: famiglia, musica e curiosità intatta. Il mondo cambierà, la tecnologia e le abitudini cambieranno, ma la cosa che desidero è restare fedele al piacere di creare — che sia per un grande palco o per me stesso, in cameretta.
Vorrei anche che la musica rimanesse un rito per le persone, non solo un sottofondo.
IL TRAILER
IL SINGOLO
APÁGAME invita non solo a mettere giù ogni tanto il telefono, ma anche a riscoprire la bellezza del silenzio, della natura e persino della noia. In un’epoca in cui i social media spesso creano pressione e confronto, Alvaro Soler fa una dichiarazione a favore della consapevolezza e della cura di sé, racchiusa in una canzone ballabile, emozionante e profondamente contemporanea.
Ho scritto APÁGAME perché continuo a notare come gli schermi e gli algoritmi ci affascinano – racconta Alvaro – A volte non si sa più nemmeno se si tratta del mondo reale o di quello digitale. Mi ritrovo spesso in questa situazione e ho creato dei modi per stare a casa senza telefono, ed è una sensazione incredibilmente piacevole”.
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