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Prezzi alle stelle e attese infinite! La fatica di acquistare i biglietti dei concerti?

pexels-lstan-2147029-Foto-di-Laura-Stanley

Acquistare un biglietto per un concerto, oggi, è spesso un’esperienza che somiglia più a un reality distopico che a un gesto spontaneo.

Lo sanno bene i fan dei Radiohead, che per accedere ai biglietti dei loro tour recenti hanno dovuto affrontare una sorta di percorso a ostacoli digitale, tra code virtuali infinite, captcha e sistemi di accesso limitato che ricordano da vicino le dinamiche da Squid Game.

Ma se per alcuni l’ostacolo è l’attesa, per altri il problema è il prezzo: basti guardare al caso di The Weeknd, atteso a San Siro con tre date, dove i biglietti hanno raggiunto cifre tali da sembrare più vicine a un mutuo che a una serata di musica dal vivo.

Due esempi emblematici di un mercato che si muove tra eccessi di domanda, algoritmi di vendita e rincari che sollevano più di una domanda sull’accessibilità della musica dal vivo.

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L’ESPERIENZA REALE 

Ebbene si, prima c’era lo scaffale dei CD e delle musicassette, il comodino dove da bravi architetti musicali innalzavamo colonne di riviste musicali, prossime al crollo (anche psicologico dei nostri genitori) e poi c’era la scatola magica dei biglietti dei concerti, oppure la parete, per chi non era troppo feticista dell’oggetto immacolato, da tappezzare col ricordo di ogni singola, sudata conquista musicale: Metallica al centro, Aerosmith nell’angolo destro, Depeche Mode storto in basso a sinistra, Cure lì di lato, Police un po’ decentrati… questo accadeva facilmente fino a qualche anno fa. Quando bastava una passeggiata sotto la metro Duomo e una fila con persone in carne ed ossa – niente che fosse paragonabile a quella per un Labubu oggi – o un giro su Ticketone senza troppo sbattimento – login, acquista, logout, ricevi a casa.

Oggi sei stanco ancora ancora prima dell’acquisto. Oggi sei stanco già all’annuncio della release del tour. Oggi sei stanco già dal rumor che la band X sarà nella località Y per un numero Z di date. Ma sai che ci proverai, a fare la coda, virtuale. Anzi no, la coda per fare la coda per avere il diritto di fare la coda. Come per i Radiohead. Che in teoria, è stato un processo molto più semplice che per gli Oasis, ma non meno stressante. 

Per inciso, io le ho tentate entrambe queste strade. La prima (Oasis) è stata una delle esperienze più frustranti della mia vita. La seconda è andata bene fino ad un passo dalla fine, seppur, in cuor mio, vista l’esperienza precedente, già sapevo che non avrei acquistato i biglietti. Perchè ero conscia che avrei incontrato un ulteriore muro, alla fine della crociata: il muro del “ma chi me lo fa fare?”, del ricordo dei tempi andati,  che è ancora più duro da scalfire di quello del prezzo e del nervosismo. Che comunque richiedono una non trascurabile forza bruta nei bicipiti, e un piccone taglia XXL del quale non dispongo.

Oasis: passo un pranzo intero a fare una coda con un sistema che si impalla ogni due minuti, così come i bocconi che ingerisco. A tavola io, il mio compagno, Liam e Noel, impersonificati da una schermata con una rotellina che gira a vuoto. Faccio in tempo ad uscire, aiutare uno dei miei più cari amici a scegliere l’abito di nozze, ritornare a casa, ritrovare ancora quella rotella che gira, apprendere che un sacco di gente che conosco ce l’ha fatta, provare un sentimento d’invidia di cui mi vergogno profondamente ma di cui non riesco a disfarmi per la settimana a venire e fare finta di essere superiore perchè “io non sono un ingranaggio che alimenta questo sistema malato” (lo so io, poi, quanto ho sofferto quando quei due hanno suonato a Manchester).

Radiohead. Premessa: li avevo già visti per il tour di In Rainbow, all’Arena Civica di Milano. E fu spaziale. Quindi ero meno carica, anche perchè non particolarmente presa bene dall’idea di una trasferta a Bologna (ho 40 anni e sul comodino non ho riviste musicali ma gocce di Rivotril). In ogni caso, una volta apprese le modalità, mi segno la data in cui aprirà la registrazione per accedere alle vendite, cosa che avverrà una settimana dopo la data della suddetta registrazione. Mi registro. Poi mi annunciano  di attendere una specie di codice che attesta l’avvenuta registrazione con successo. Arriva, con calma ma arriva – via mail o cellulare? non ricordo. Dopodichè giunge, nei giorni successivi, un’ulteriore mail in cui si annuncia che sono stata selezionata per accedere alla vendita, con un prezioso codice allegato. Se non ricordo male – ci sono talmente tanti passaggi che faccio fatica a collocare spazio-temporalmente tutte le informazioni – ci sono anche i prezzi dei biglietti, si parte da circa 87 euro.

Conservo la mail come il santo Graal e il fatidico 12 settembre, data di apertura delle vendite (fissate alle ore 11) mi metto in coda virtuale. Spiego meglio: dalle 10 ci si mette in coda per mettersi in coda. Quindi, terminata questa fase preliminare, inserisco il codice e apre la coda (vera) delle 11, e sono tipo la 8000esima.
La barra dell’attesa scorre abbastanza velocemente, in mezz’ora ci sono, posso inserire il codice benedetto e procedere all’acquisto: i biglietti sono quasi tutti disponibili: il parterre costa 116 euro, ed è l’unico posto che posso valutare.
 
Ho 10 minuti – così leggo, che ansia – per completare l’acquisto. Esito. Valuto. Mi alzo, faccio cose, arrivo fino al momento prima di schiacciare “Paypal” e procedere.
Ma cambio idea (o meglio, confermo la mia idea iniziale) e chiudo tutto. 150 euro totali x 2 biglietti con tasse incluse, + viaggio, + pernotto, sono in ballo da due settimane senza avere nemmeno l’entusiasmo di vedere questo concerto perché trovo tutta questa tartantella senza senso, in più penso alle rate del mutuo e alle spese extra della facciata del palazzo che devono rifare.
 
Dopo un’ora scopro che è sold out pure il balcone della signora in centro a Casalecchio di Reno, e che i prezzi sono già rivenduti a 2000 euro. Penso, di nuovo, questa volta senza invidia, che sono proprio contenta di non far parte di questo meccanismo. E poi a marzo ci sono i Suede a Milano.

 

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