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Intervista – NATION OF LANGUAGE vulnerabilità, synth e memoria

Nation-of-Language-2025

Synthpop, minimal wave, elettronica, post-punk, goth, new romantic i Nation of Language vivono in quello spazio liminale dove le etichette e i generi smettono di essere categorie e diventano semplici ipotesi.

La loro musica, guidata dalla voce di Ian Richard Devaney, non cerca la nostalgia ma la attraversa, la decostruisce, la reinterpreta fino a trasformare la sintesi elettronica in un gesto sorprendentemente umano, quasi epidermico.

Con “Dance Called Memory Devaney”, il loro ultimo album, torna a un’urgenza primordiale, scrivendo alla chitarra e lasciando che la vulnerabilità diventi motore e materia del disco. 

Li abbiamo incontrati durante la loro recente apparizione ai Magazzini Generali di Milano, per parlare di vulnerabilità, identità, tecnologia e di quel sottile filo emotivo che continua a tenere insieme la loro musica.

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L’INTERVISTA

“Dance Called Memory” il vostro ultimo disco sembra costruito come un diario in filigrana, scritto tra malinconia e lucidità. Che cosa ti ha spinto a lasciare che la vulnerabilità diventasse il motore del disco?

Credo che, in un certo senso, non ci fosse molta scelta: la malinconia era l’unica cosa su cui la mia mente riusciva a concentrarsi, e la musica era l’unico vero sfogo che avevo. Molti dei nostri fan sono stati vulnerabili con me, raccontandomi cosa la nostra musica ha significato per loro, quindi ho sentito che, attraversando la mia stessa crisi, avevo un luogo sicuro dove essere vulnerabile — forse persino la responsabilità di esserlo. In tanti aspetti della vita ho dovuto indossare una maschera sulle mie emozioni, ed era importante per me che la musica non fosse uno di quei luoghi.

Ian, hai detto che hai scritto i nuovi brani “per distrarti dalla depressione”. Quanto di quel processo è stato terapeutico, e quanto invece è rimasto un atto quasi clinico di auto-osservazione?

Direi che fosse più o meno un 50/50. C’è una soddisfazione profonda nel sentire di aver creato qualcosa che cattura davvero ciò che provi, ed è incredibilmente terapeutico. Ma implica anche restare seduti con la propria miseria, senza distogliere lo sguardo. Nel lungo periodo, si spera, questo porta crescita, ma nel momento può essere estremamente spiacevole.

Avete sempre abitato una costellazione di etichette: synthpop, minimal wave, post-punk, goth, new romantic. Quanto vi importa davvero di come i critici cercano di definirvi? E c’è un’etichetta che vi irrita più delle altre?

Nessuna etichetta ci disturba davvero — credo siamo stati fortunati: la maggior parte delle persone che usa questi termini di solito chiarisce che la nostra musica non suona come un semplice tributo rétro. Ci sono tantissimi elementi che ci ispirano, e tutti quei generi hanno un ruolo, ma ciò che facciamo deve sembrare il lavoro di una band contemporanea, non una copia di stili passati per puro stile. Agli inizi cercavo molto di aderire al linguaggio synthpop in modo preciso, ma da allora le cose sono cresciute ed evolute. Alla fine, spero siano le canzoni a restare al centro.

“I’m Not Ready for the Change” è una meditazione sul lasciar andare. Che cosa non siete ancora pronti a lasciare andare oggi, come individui e come band?

Credo che, come band e come persone, resistiamo alla “professionalizzazione”. Ci piace ancora fare le cose da soli e conoscere ogni passaggio del processo. Quando la band cresce, c’è la tentazione di semplificare e rendere tutto più efficiente, ma più lo fai e più ogni giorno rischia di sembrare uguale — nel modo sbagliato. Un piccolo esempio: ogni sera, in tour, montiamo da zero la postazione dei synth. Per qualcuno potrebbe essere una perdita di tempo; per noi è un modo di iniziare la giornata lavorativa costruendo qualcosa insieme e preparando il palco allo spettacolo.

La scena synth contemporanea sta cambiando — sempre più digitale, sempre più algoritmica. Dove si collocano i Nation of Language in questa transizione?

Credo che non ci sia nulla di male nell’usare strumenti digitali come software synth ed effetti per creare arte, ma non mi piace l’idea che AI e algoritmi abbiano un ruolo più grande nel mondo della musica. Come band ci collochiamo decisamente fuori da quella transizione. Da noi si dice “lavorare di più, non più furbi”, perché pensiamo che ci sia grande valore nella fatica, nell’attrito, nel dover risolvere problemi imprevisti. La band dovrebbe essere un veicolo di crescita personale, non una fabbrica di canzoni.

La vostra musica si muove costantemente sul confine tra freddezza elettronica e calore emotivo. Qual è la chiave per fare in modo che la tecnologia amplifichi l’umano invece di filtrarlo?

In un certo senso viene naturale, perché la musica, nella maggior parte dei casi, esiste principalmente per sostenere il testo e le melodie vocali. In ogni fase del processo cerchiamo di assicurarci che l’anima umana della canzone sia sempre al centro.

Il pubblico italiano vi ha accolto con affetto crescente. C’è qualcosa che vi sorprende o affascina in particolare del pubblico italiano?

Non direi che mi sorprenda, ma amo vedere quanta passione hanno i fan. Gli italiani sono conosciuti ovunque come un popolo appassionato, ed è incredibile vedere quell’energia e quell’entusiasmo rivolti a noi e alla nostra musica. È un grande onore.

Conoscete qualche cantante italiano? Se sì, quali?

Aidan mi fece un CD mix all’inizio della nostra relazione con dentro la band italiana Soviet Soviet, quindi per noi hanno un significato speciale.

Che cosa state ascoltando in questi giorni? C’è un artista o una band che proprio non riuscite a togliervi dalla testa?

C’è un’artista che si chiama Avalon Emerson, conosciuta soprattutto come DJ di musica dance, ma che ha anche un progetto chiamato Avalon Emerson and The Charm, in cui esplora un approccio più cantautorale, restando però nell’ambito synth. Ha appena pubblicato un singolo dal prossimo secondo disco dei Charm, quindi lo sto ascoltando molto e sto anche riscoprendo il primo album.

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