WOODSTOCK 10 canzoni per festeggiare i 50 anni

WOODSTOCK 10 canzoni per festeggiare i 50 anni

Ci sono storie che non hanno un inizio e una fine, esistono e basta. Come nei miti o nelle favole, non importano le coordinate spazio-temporali: sono definite soltanto dalla risonanza che hanno in qualsiasi momento della storia e in qualunque luogo del mondo.  Una di queste storie, si chiama Woodstock.

Correva l’anno 1969 quando a Bethel, una minuscola cittadina dello Stato di New York, si radunarono 500.000 spettatori, contro i 50.000 originariamente previsti, per 4 giorni di musica non stop che avrebbero cambiato per sempre la storia. Non solo quella della musica: tutta la storia, tutte le persone presenti, ma anche i loro figli e i loro nipoti. Più tutti i musicisti che sarebbero nati da quel momento ad oggi. E’ per questo che Woodstock, anche se il 15 di agosto compie 50 anni, non ha età. E anche se hanno da poco annunciato che il concerto-anniversario non si farà, noi il suo compleanno lo festeggiamo ugualmente. Con 10 pezzi tratti da altrettante esibizioni memorabili…in ordine di uscita.

JOAN BAEZ (Venerdi 15 Agosto) – Woodstock la incorona regina del folk. La sua voce però non fu solo quella delle splendide canzoni, che le valse il soprannome di “Usignolo di Woodstock”, ma anche del pacifismo e della protesta. Joan, al sesto mese di gravidanza, intervallò la sua esibizione con messaggi politici, condividendo con migliaia di persone le sue posizioni col trasporto di una vera guerriera.

 

SANTANA (Sabato 16 Agosto) Il chitarrista ha raccontato di aver suonato sotto l’effetto della mescalina, per questo il manico della chitarra gli appariva come un serpente. Vero o no, quel serpente deve averlo domato bene, vista l’esibizione entrata negli annali nonostante fosse all’epoca ancora sconosciuto.  Un giovanissimo Micheal Shrieve regalò in “Soul Sacrifice” un assolo di batteria tra i più memorabili della storia, Santana  gli fece eco con due lunghissimi assoli di chitarra. Sarebbe stato uno dei grandi ritorni a Wookstock 2019. Se solo non lo avessero annullato.

 

JANIS JOPLIN (Sabato 16 Agosto) Se Joan Baez è la regina del folk, lei è stata la regina del blues. Se la voce dell’amica folksinger era quella della protesta, la sua fu l’espressione di una sofferenza profonda, che purtroppo non trovò mai un completo riscatto. Janis salì sul palco a notte fonda, dopo ore di attesa passati a suon di brindisi con la “Kozmic Blues Band”. La performance non fu degna della sua inestimabile bravura, provata com’era dall’alcol e dalle droghe. Ma ciò non contribuì affatto a spegnere il mito: la voce di Janis Joplin resterà per sempre una delle più belle del mondo.

 

GRATEFUL DEAD (Sabato 16 Agosto) Un’altra esibizione memorabile, ma non per qualità. E non per colpa della band, che ci provò fino alla fine: a rovinare la performance ci pensò un temporale, proporzionale evidentemente alla portata dell’evento. I “bzzz bzzz” e i rischi di corto-circuito resero l’esibizione poco fluida, noiosa e incomprensibile. E pensare che non poteva esserci palco migliore per i viaggi psico-sonori della band.  Il concerto fu di un livello talmente basso che Bob Weir lo ha definito il peggiore della loro vita.

 

CREEDENCE CLEARWATER REVIVAL (Sabato 16 Agosto) Il loro ricordo woodstockiano non è collegato all’esibizione, ma al fatto che non autorizzarono l’inserimento della performance nel documentario del 1970 dedicato al Festival. Il  leader John Fogerty, tutt’altro che soddisfatto dell’esibizione, preferì l’oblio. Ci sono voluti cinquant’anni di immaginazione per cambiare idea e farsi perdonare: il 2 agosto 2019 vede la luce “Live at Woodstock”, la testimonianza integrale del loro concerto.

 

THE WHO (Sabato 16 Agosto) “Fuck off my fuckin’ stage” fu quello che Pete Townshend urlò ad Abbie Hoffman, che ebbe la malaugurata idea di salire sul palco, rubargli il microfono e levare la sua voce in favore di un tale John Sinclair, condannato a 9 anni di prigione per possesso di marijuana. Come racconta lo stesso Townshend nella sua autobiografia, non riuscì a trattenere la rabbia e colpì il malcapitato con la chitarra, ferendolo al collo. Alla fine dell’esibizione, il frontman gli sussurrò “Mi dispiace”, ricevendo un sonoro “Fuck off” di tutta risposta. Peace & Love.

 

JEFFERSON AIRPLANE. (Sabato 16 Agosto) Woodstock fu il festival dell’attesa per quasi tutte le band, ma gli strumenti (non musicali) a disposizione per riempire il tempo c’erano eccome. Paul Kantner, poco prima di salire sul palco, ebbe una costruttiva conversazione con un piatto di Camembert dietro le quinte, convinto che si trattasse di un essere umano. Resta un mistero cosa si siano detti.

 

JOE COCKER (Domenica 17 Agosto) Quando si pensa a Woodstock, se il primo pensiero non è Jimi Hendrix, allora è Joe Cocker. Il Festival fu di certo il trampolino di lancio verso la fama.  Dopo un’introduzione strumentale della sua Grease Band, Cocker attacca con una cover di Bob Dylan. Un’ ascesa verso la gloria, che culmina con un’altra cover, “Whit a little help from my friends” dei Beatles. Dopo di lui, il palco resta in agibile per diverse ore, a causa della pioggia.

 

CROSBY, STILLS, NASH & YOUNG (Domenica 17 Agosto) Sembra strano pensarci, eppure Woodstock fu il secondo concerto in assoluto per il quartetto. Nessuno di loro aveva idea di quello che avrebbero trovato davanti a loro, di lì a poco. Invece di dissimulare la tensione, la condivisero con il pubblico, ai quali dissero molto ingenuamente che se la stavano facendo addosso. Non sembrò affatto così, e la storia ne è testimone: dopo una prima parte elettrica, Young raggiunse i compagni sul palco per un secondo tempo acustico. Niente male come secondo battesimo.

 

JIMI HENDRIX Lunedi 18 Agosto Ci fu un’altra chitarra che infiammò il palco di Woodstock, la Stratocaster di Jimi Hendrix (ribattezzata appunto “The Woodstock Strat”). La sua esibizione fu la degna conclusione del Festival: alle 9 di mattina del 18 Agosto, con la nuova formazione “Gipsy Sun and The Rainbows”, Hendrix si esibì per 2 ore (un vero record di durata, per lui) dinanzi ad un pubblico ormai dimezzato. Indimenticabile l’inno statunitense “condito” da rumori e distorsioni. Da far sentire a Trump.

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